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Un articolo di Christian Raimo di qualche tempo fa che vale la pena rileggere

PUBBLICATO IL  luglio 29 -  News, Scrittura

Perché c’è bisogno di un populismo di sinistra

Due mesi fa, quest’estate, ho assistito a Londra a una giornata della campagna elettorale di Jeremy Corbyn alla Union Chapel. Tra le molte cose (belle) che mi hanno sorpreso ne ho appuntate mentalmente un paio.

La prima è che l’intervento finale di Jeremy Corbyn durava da programma venti minuti, e venti minuti è durato. Tanto carismatico quanto sintetico, tanto chiaro quanto radicale.

Pantaloni larghi con le pinces, senza cravatta, aria da middle class novecentesca, ha parlato di rinazionalizzare le ferrovie, di abbassare le tasse universitarie, di rendere di nuovo pubblico ed efficiente il servizio sanitario nazionale, di sostenere un’alternativa economica chiara. Ha detto: “Non è possibile che la classe politica britannica abbia studiato tutta a Oxford o a Cambridge”, “dobbiamo avere una risposta umana e umanitaria alla questione delle migrazioni”, e ha concluso i suoi venti minuti con una frase di grande efficacia: “Immagino un mondo in cui tutte le persone si prendono cura delle altre, e questo mondo si chiama socialismo”.

Ma il suo intervento, convincente, perfetto, da leader che avrebbe effettivamente stravinto le primarie del Partito laburista, non è stato nemmeno il migliore della giornata.

Ad aprire infatti era stato un giovane attivista, opinionista del Guardian, che si chiama Owen Jones. I venti minuti di Owen Jones sono stati il miglior discorso di sinistra che ho sentito negli ultimi anni.

Non solo per le qualità di oratore, non solo perché ha criticato in modo analitico quasi vent’anni di politiche segnate dai governi di Tony Blair e dai suoi eredi, ma soprattutto perché ne ha smontato il nucleo ideale, e ha voluto porre il problema fondamentale per chi cerca di esserne un’alternativa, che non è quello di riconquistare la sinistra, ma di riconquistare la società: “Non possiamo lasciare soli quelli che hanno votato Ukip”, “C’è bisogno di una cultura femminista”, “Occorre recuperare la tradizione socialista del novecento”.

L’odio di classe ha cambiato obiettivo

Owen Jones ha scritto un fortunato libro quattro anni fa (a 27 anni) intitolato Chavs, the demonization of working class, in cui mostrava come l’odio di classe oggi non sia più diretto contro i padroni, gli sfruttatori, i ricchi, ma contro gli sfruttati, contro la classe operaia, che è temuta o presa in giro, sbeffeggiata per la sua progressiva marginalità sociale, per le sue maniere cafone, per la sua debolezza politica, per la sua pochezza teorica.

Il politicamente corretto che impedisce a chiunque sia di sinistra di dichiararsi razzista, sessista, omofobo, consente però di potersela prendere con i chavs, un termine spregiativo che forse in Italia potrebbe essere tradotto con un regionalismo: “coatto”, ossia una categoria estetica liquidatoria che in fondo tiene insieme precari, disoccupati, operai, semplici poveri.

L’analisi di Owen Jones è ovviamente calibrata su una società come quella britannica classista e ossessionata dal successo individuale, ma se si vuole leggereChavs da una prospettiva più lontana se ne ricava comunque una capacità di sguardo che è utile per decifrare quello che avviene in Italia.

La mentalità che racconta Jones corrisponde a quello che si può definire un populismo destrorso, camuffato anche nei luoghi della sinistra.

Ecco il punto. Se c’è una cosa che hanno mostrato la politica italiana ed europea negli ultimi trent’anni, è che ovunque si è affermato un populismo di destra. Antidemocratico, nazionalista, reazionario, sostanzialmente xenofobo, ma non solo: multiforme, mimetico, interclassista, trasversale. La crisi delle ideologie del novecento si è portata dietro i partiti, i sindacati, ma anche lo stesso impianto dei diritti sociali.

Non è un caso se solo nei mesi recenti sono usciti due libri come quello di Marco Tarchi, Italia populista (Il Mulino), o quello di Nicola Tranfaglia, Populismo(Castelvecchi), che provano entrambi a ricostruire – Tarchi con maggiore acume, Tranfaglia con più impressionismo – la mappa e la storia di questo concetto sfuggente: ideologia? Mentalità politica? Piattaforma di valori?

Tarchi tenta di dar conto del dibattito sulla definizione di populismo e arriva anche a proporne una propria sintesi:

La mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato, come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e mediazione.

Ma il pregio del suo libro non è tanto teorico, ma piuttosto storico e descrittivo; quando racconta la storia d’Europa e d’Italia dal dopoguerra in poi sotto la lente del populismo.

Dal poujadismo all’euroscetticismo, dall’Uomo qualunque al Movimento 5 stelle, questa ricostruzione permette di capire che il populismo europeo e quello italiano sono stati essenzialmente di destra: una spinta spesso scomposta, latente o emersa, che nel nostro paese, per esempio, si è incarnata di volta in volta nell’esperienza di Giannini, in quella plebiscitaria di Achille Lauro, nel neofascismo, nel giustizialismo successivo a Tangentopoli, in Giancarlo Cito, nella Lega nord, in Silvio Berlusconi, in Beppe Grillo.

Sembra una storia, quella italiana, che riproduce con caratteri quasi parodistici una tradizione che ha almeno un paio di secoli. Quando Nicolao Merker in Filosofie del populismo (2009) rintracciava la matrice filosofica delle manifestazioni politiche del populismo, partiva dalla rivoluzione francese e mostrava come la degenerazione delle lotte di emancipazione abbia sempre luogo quando si finisce per mitizzare il popolo attribuendogli essenzialmente caratteristiche tribali.

Ma Merker compiva esplicitamente, nella sua analisi, un arbitrio scivoloso e dannoso: escludeva tutto quello che potremmo definire populismo di sinistra. Quello, per esempio, antitirannico, anarchico, anarcosindacalista, spontaneista, comunardo dell’ottocento; o quello trozkista, operaista, terzomondista, maoista del novecento. Di fatto Merker sembra non ritenere Antonio Gramsci un teorico del populismo, lasciandogli un paio di citazioni marginali in tutto il libro.

Gramsci invece è fondamentale. È fondamentale per Ernesto Laclau, che nel 2005 ha scritto un libro chiave: La ragione populista. Ed è fondamentale per noi, che proviamo a dirci ancora di sinistra. Attraverso Gramsci, Laclau riesce a compiere un importantissimo rovesciamento di prospettiva: il populismo fino a oggi non è solo stato degradato, è stato proprio denigrato, è stato condannato moralmente. Questo ha significato essenzialmente screditare le masse, considerando – da Gustave Le Bon in poi – patologica in sé la psicologia della folla: irrazionale, antisociale, malata. L’intelligenza del singolo nella massa sparisce, se già i romani affermavano: “I senatori sono uomini perbene, ma il senato è una cattiva bestia”.

E se invece fosse possibile un’intelligenza del popolo? E se fosse possibile costruire un “popolo” che non annichilisca le domande individuali ma le trasfiguri? Come avviene questo processo? Non si può prescindere dalle analisi di Laclau per provare a creare oggi in Italia qualcosa di vagamente durevole a sinistra. Cerchiamo di capire perché semplificando un pensiero denso come quello del filosofo argentino morto un paio di anni fa.

Al contrario di molti altri teorici del populismo, che definiscono il populismo come ideologia, mentalità, fenomeno eccetera, Laclau lo descrive più o meno come un dispositivo, o un meccanismo, che compie due azioni: rende equivalenti posizioni politiche che non lo sono, e crea una polarità, una divisione che prima non esisteva.

Fidiamoci di Laclau e facciamo un paio di esempi di quello che è accaduto in Italia negli ultimi cinque anni. È ormai innegabile che si sono affermati vari populismi: quello di Renzi, quello di Grillo e quello di Salvini, e che oggi questi sono gli unici blocchi identitari a confrontarsi nell’arena politica.

Tutti e tre hanno sfruttato il sistema illustrato da Laclau: hanno reso equivalenti delle differenze e hanno creato una polarizzazione che prima non esisteva.

La rottamazione di Renzi è riuscita a unire, per dire, socialisti e liberali, difensori di idee keynesiani con iperliberisti, cattolici e laici, attraverso una separazione del panorama politico tra vecchio (da rottamare) e nuovo (da incarnare).

L’operazione parallela di Grillo, da par suo, ha confuso e riunito classi sociali parecchio differenti, blocchi politici con aspirazioni e idee anche opposte (vedi, per esempio, sull’immigrazione), attraverso una divaricazione tra corrotti (da maledire) e onesti (il popolo del Movimento 5 stelle); quanto è stata essenziale la lettura sociale di Rizzo e Stella e del loro libro La casta per rendere credibile questa visione pentastellata?

Il populismo di Salvini è più facilmente leggibile: si basa su una divisione noi/loro = italiani/invasori che però riesce a tenere dentro “noi” anche un ceto medio impoverito, i depressi sociali, e molti di coloro che fino a qualche anno fa non avrebbero mai pensato di identificarsi nelle idee leghiste.

Come sono state possibili la nascita e lo sviluppo così rapido di queste tre ideologie postpolitiche: renzismo, grillismo, il robusto leghismo salviniano?

La crisi economica del 2008, oltre a spazzare via i cascami di quei fantasmi che hanno infestato per vent’anni la scena politica italiana – berlusconismo e antiberlusconismo – ha innescato una serie di richieste democratiche dal basso: più rappresentanza, più uguaglianza di reddito, più formazione, più accesso alle risorse, più diritti civili.

Queste domande democratiche sono spesso rimaste isolate (vedi, per esempio, quanto poco si sia riuscito a capitalizzare la battaglia del referendum sull’acqua) e sono stati scaltri Renzi, Grillo e Salvini a capire che dietro le richieste democratiche c’è sempre anche una ricerca di comunità, e a trasformarle quindi in “domande popolari equivalenziali”: ossia a sfumare le differenze tra le posizioni, e a creare questi “popoli”, della Leopolda, della rete, di Pontida, attraverso slogan in apparenza banalissimi e vuoti – rottamazione, vaffa, ruspa.

Ma, sottolinea Laclau, questa capacità politica non è altro che aver dato “pienezza a una comunità che viene a mancare”. Il nome del popolo sarà proprio il tentativo di dare un nome a questa pienezza assente.

Ecco che coloro che contestano a Renzi, a Grillo e a Casaleggio, o a Salvini, una vuotezza ideale, un trasformismo, una vaghezza dei programmi, non comprendono che è proprio questa la leva principale della loro forza politica, ne è anzi l’essenza.

Se ci convinciamo di questa lettura – e possiamo farlo vagliandola anche con quello che sta avvenendo in Europa, all’esperienza di Syriza, di Podemos, del nuovo Labour corbyniano (non è un caso che Gramsci e Laclau abbiano fatto capolino tra le letture di riferimento dei nuovi leader di sinistra) –; se ci convinciamo di questa lettura – che resiste secondo me anche alle ottime critiche di Toni Negri secondo cui Laclau naufraga in un pensiero postideologico che non comprende la struttura della società ma solo la superficie – potremmo allora da una parte rivendicare un populismo di sinistra che ha una sua lunga e autorevole storia, e dall’altra immaginare una lettura efficace della società che riesca a creare un “popolo” di sinistra forte come è accaduto in Grecia, in Spagna, nel Regno Unito.

Un populismo di sinistra credibile

Un bell’articolo di Marco D’Eramo tre anni fa ricordava che prima che il populismo da Reagan in poi fosse egemonizzato dalle destre, abbiamo avuto una lunga storia novecentesca di lotte per i diritti, per i salari, per l’uguaglianza, “contro i monarchici dell’economia”, “contro i poteri che ci hanno infilato una camicia di forza”.

Il socialismo – l’hanno ben capito Alexis Tsipras, Pablo Iglesias e Jeremy Corbyn – può consegnarci lo strumento con il quale tracciare quella divaricazione essenziale per la nascita di un populismo di sinistra credibile.

Chi c’è da una parte e chi c’è dall’altra?

Da una parte ci sono i precari, il ceto medio impoverito, ma anche i migranti che chiedono diritti, e i cittadini di un meridione socialmente depresso, e ci sono quegli studenti che non vogliono alimentare un’emigrazione che non è più fuga solo di cervelli ma di manodopera a basso costo, quelli che non hanno case di proprietà e che non possono e non potranno accedere a un mutuo, i pignorati, quelli che occupano spazi, i cosiddetti neet (coloro che non studiano e non lavorano), gli arresi, gli evasori fiscali per necessità, una massa diffusa e interclassista, di neopoveri, di quasi poveri, che provengono da contesti sociali e familiari, e persino nazionali differenti, ma che reclamano sostanzialmente reddito e accesso alle risorse, un welfare degno di questo nome.

Dall’altra parte ci sono coloro che non vogliono condividere risorse, che dispongono di un welfare privato e ristretto, che cercano di garantirsi una condizione sociale di privilegio. Impoveriti contro arricchiti. Chavs contro posh. Coatti contro fighetti.

Questo populismo a venire ci dice che non stiamo tutti sulla stessa barca. Che occorrono ed esistono delle proposte politiche a livello europeo che vanno davvero in controtendenza rispetto all’austerità – da far propria è, per esempio, quella di Marco Bertorello e Christian Marazzi di un “quantitative easing” sociale: i soldi nelle tasche delle persone e non nelle banche, come ci ha tenuto a specificare Marazzi in un recente dibattito a Roma.

Ma questo populismo ci può far immaginare anche la fine della frammentazione all’interno della sinistra radicale italiana, delle sue tante formazioni, partiti e associazioni, e può coinvolgere i milioni che non militano più oppure non votano, e spingerli a ritrovare finalmente il senso di una comunità politica in cui riconoscersi.

Fonte [Internazionale.it]

Arrestato il capo della Siae russa

PUBBLICATO IL  luglio 22 -  News, Scrittura

Il capo della RAO, la società di collecting russa omologa alla SIAE, è stato arrestato per sospetta frode. Sergei Fedotov è accusato di avere utilizzato parte delle royalties raccolte dalla RAO per acquistare proprietà poi trasferite a terzi. Per quanto la RAO sostenesse che l’indagine alla quale era da tempo sottoposta non avesse rilevato irregolarità nelle transazioni sotto accusa (per un valore intorno ai 500 milioni di rubli, pari a circa 25 milioni di euro), risulta che l’arresto di Fedotov sia avvenuto lo scorso lunedì dopo la perquisizione del suo ufficio e della sua abitazione.

La RAO era assurta alle cronache dell’industria la scorsa estate, quando sembrava imminente la sua fusione con la federazione dei discografici russa, la VOIS, e con la società di riscossione RSP: il progetto di creazione di una super-struttura nazonale per la gestione dei diritti era poi fallito lo scorso autunno.

SIAE, non è una tassa ma così non funziona – di Guido Scorza -

PUBBLICATO IL  gennaio 18 -  Scrittura, Web

Tra storie di ispettori SIAE che si presentano la notte di capodanno a riscuotere diritti per la musica che anima feste private in strutture che ospitano disabili, la mozione approvata dai giorni scorsi dal Consiglio Regionale della Lombardia per cancellare ogni compenso dovuto per le manifestazioni organizzate dalle amministrazioni locali e dalle associazioni senza scopo di lucro e la dura risposta della Società italiana autori ed editori, il 2016 della SIAE non si è certo aperto nel modo migliore possibile.

Ancora una volta la Società autori ed editori che fu di Verdi e Carducci attira l’attenzione persino di un’istituzione pubblica come un Consiglio Regionale non per i propri meriti nel supporto o nella promozione della cultura nel nostro Paese ma, al contrario, per la rigidità e irragionevolezza delle proprie regole e del proprio agire.

Prima di proseguire, però, val la pena mettere un chiaro una questione per evitare ogni equivoco o fraintendimento: chiunque usa musica altrui nell’ambito di qualsivoglia manifestazione, evento, festa o festino è giusto che chieda il permesso al titolare dei diritti e/o a chi lo rappresenta perché, in fondo, utilizza lo sforzo dell’attività creativa di quest’ultimo per scopi più o meno nobili e/o per far soldi piuttosto che, semplicemente, per intrattenere chicchessia.

Questo principio non ha niente a che fare con le tasse ma rappresenta, al contrario, una regola basilare di civiltà e buon senso: per usare qualcosa di qualcun altro, si chiede permesso che si tratti di un oggetto materiale o immateriale come i diritti d’autore.

Sgombrato, tuttavia, il campo dal rischio di equivoci, non si può nascondere che se così tanto frequentemente soggetti pubblici e privati percepiscono regole ed azioni della società di Viale della letteratura come più simili a quelle di un odioso esattore delle tasse che a quelle di un ente – peraltro pubblico – di promozione e tutela del patrimonio culturale italiano una ragione deve pur esserci e si tratta, evidentemente, di una ragione sulla quale la SIAE, chi la governa e chi, nel Governo, dovrebbe vigilare sul suo operato, farebbero bene ad interrogarsi.

Passi che il gestore di un bar percepisca come un balzello anziché come un sacrosanto compenso per diritti d’autore il corrispettivo della licenza che paga, ogni anno, alla SIAE ma che la percezione sia analoga anche da parte di un Consiglio Regionale come quello della Lombardia sembra, davvero, il segno tangibile che qualcosa non funziona.

E che qualcosa non funzioni, in effetti, è indubitabile.

Tanto per cominciare non funzionano le regole del gioco imposte dalla SIAE e non dalla legge sul diritto d’autore.

Mentre, infatti, è sacrosanto che un autore abbia diritto a farsi pagare anche quando la sua musica è utilizzata in una festa privata alla quale partecipano persone meno fortunate come i disabili o in un evento organizzato da un’amministrazione pubblica se lo desidera è meno ragionevole – ed anzi del tutto irragionevole – che un autore non sia in condizione di rinunciare a qualsivoglia compenso solo ed esclusivamente quando la sua musica è utilizzata in occasioni di questo genere.

Non c’è ragione al mondo per la quale un autore dovrebbe essere privato della libertà di lasciare che la sua musica sia utilizzata, per scopi non commerciali, da chicchessia – o solo da talune categorie di soggetti – senza incassare neppure un euro.

Eppure, ad oggi, un autore iscritto alla SIAE una scelta tanto semplice e nobile al tempo stesso, non la può fare.

Né, d’altra parte, chi organizza un evento senza scopo di lucro ha la possibilità di scegliere in un repertorio firmato SIAE una playlist, utilizzabile senza pagare ciò che, magari, non si può permettere e senza con ciò sentirsi pirata.

Questa regola figlia esclusivamente dell’incapacità della Società autori ed editori di gestire la raccolta ed il riparto dei diritti d’autore in modo più moderno e meno da gabelliere che da ente culturale è una regola che deve essere cambiata ed in fretta.

Lo impone, tra l’altro, la Direttiva dell’Unione europea che il nostro Paese dovrà attuare al più tardi in primavera nella quale, non a caso, il legislatore di Bruxelles ha messo nero su bianco che “Occorre che gli organismi di gestione collettiva che gestiscono diversi tipi di opere e altri materiali protetti, come opere letterarie, musicali o fotografiche, permettano ai titolari dei diritti di gestire in maniera altrettanto flessibile i diversi tipi di opere e altri materiali protetti. Per quanto concerne gli utilizzi non commerciali, gli Stati membri dovrebbero provvedere affinché gli organismi di gestione collettiva prendano i provvedimenti necessari per assicurare che i titolari dei diritti possano esercitare il diritto di concedere licenze in relazione a tali utilizzi. Tali provvedimenti dovrebbero includere, tra l’altro, una decisione dell’organismo di gestione collettiva in merito alle condizioni relative all’esercizio di tale diritto nonché la fornitura di informazioni ai membri su tali condizioni.”.

Ma regole a parte, se la SIAE vuole scrollarsi di dosso l’immagine che l’accompagna ormai da decenni di un carrozzone inefficiente e poco trasparente è fondamentale che restituisca ai titolari dei diritti – che si tratti degli autori o degli editori – maggiore libertà nella gestione dei propri diritti e nel rapporto con gli utilizzatori.

In assenza, infatti, siamo condannati a continuare ad assistere al divaricamento di una frattura che già oggi appare difficilmente sanabile tra utilizzatori delle opere e titolari dei diritti che fa apparire le due categorie più rivali e contrapposte che componenti di una stessa società unita da un patto sociale profondo come quello che, per decenni, c’è stato tra chi produce arte e cultura e chi la utilizza.

Fonte [L’Espresso]

 

Self-publishing – di Giacomo Papi -

PUBBLICATO IL  gennaio 18 -  Libri, Scrittura

Penguin Random House, la più grande casa editrice al mondo, ha vendutoAuthor Solutions, un servizio a pagamento – peraltro molto costoso – con cui autopubblicarsi: la decisione sancisce di fatto il ritiro di Penguin Random House dal mercato del self-publishing. Author Solutions è stata comprata dalla società finanziaria americana Najafi Companies, ma non sono stati resi noti i termini economici dell’accordo. Author solutions era stata acquistata da Pearson, il gruppo editoriale di cui fa parte Penguin Random House, il 19 luglio 2012 per 116 milioni di dollari. Nell’annunciare la cessione, Markus Dohl, l’amministratore delegato di Penguin Random House, ha detto: «Con questa vendita, ribadiamo il nostro focus sulla pubblicazione di libri attraverso i nostri 250 marchi editoriali in tutto il mondo, e che il nostro impegno è mettere in contatto i nostri autori e le loro opere con i lettori, ovunque essi si trovino». Penguin Random House annuncia, insomma, la decisione di tornare a fare libri soltanto nel modo tradizionale. Qualche mese fa anche HarperCollins, il secondo editore a livello mondiale, aveva chiuso il suo analogo sito Authonomy.com, la cui pagina oggi, appare abbastanza desolante. Potrebbero essere segnali della fuga dei grandi editori dal self-publishing dopo l’entusiasmo degli anni passati o per lo meno la dimostrazione che oggi la grande editoria non sa ancora come gestirlo.

L’acquisizione di Author Solutions nel 2012 aveva sollevato enormi polemiche: Penguin Random House fu accusata di inquinare il proprio marchio e fu anche oggetto di una causa negli Stati Uniti intentata da alcuni autori auto-pubblicati che la accusavano di avere lucrato sulle loro aspirazioni. Accedere ai servizi di Author Solutions, infatti, costava incomparabilmente più delle normali tariffe, anche migliaia di sterline. Se qualcuno decideva di spenderle era per il prestigio della casa editrice e la speranza di entrare nella sua orbita. In questo modo, Author solutions aggirava almeno in parte quelli che sono da sempre i grandi problemi nel rapporto tra editoria tradizionale e self-publishing: in primo luogo pubblicare autori senza averli prima selezionati significa perdere la garanzia di qualità su cui ogni casa editrice si basa e allontanare gli autori più importanti; il fatto poi che il self-publishing, per definizione, imponga testi non selezionati ed editati espone al rischio di pubblicare libri che hanno problemi legali, che istigano a compiere reati gravi o sono frutto di plagio. Ma passare dal self-publishing al co-publishing accentua i problemi di inquinamento di cui sopra.

Il self-publishing è esploso intorno al 2009 con il lancio dei primi lettori di eBook di massa, il Kindle di Amazon e il Nook di Barnes&Noble. Quando, subito dopo, gli eBook auto-pubblicati hanno cominciato a fare numeri importanti nei mercati di lingua inglese, i grandi editori se ne sono accorti e ci si sono buttati. Quella fase sembra terminata, anche in Italia. Per generare grandi numeri, e quindi profitti, i libri auto-pubblicati – elettronici o di carta che siano – hanno bisogno di un mercato esteso, come appunto quello in lingua inglese: secondo Nielsen nel 2015 il self-publishing sarebbe arrivato a una percentuale compresa tra 14 il 18 per cento dell’intero mercato del libro degli Stati Uniti. L’altro problema è che per essere letto un testo auto-pubblicato ha bisogno, più che di un editore tradizionale, di chi i libri su Internet  li distribuisce e di chi controlla i supporti su cui i libri vengono letti. Figure che spesso coincidono. Digitalbookworld calcola che Amazon produce oggi attraverso le suepiattaforme l’85 per cento circa dei titoli autopubblicati e che i maggiori siti di self-publishing siano legati agli eReader più diffusi: Wrintinglife al Kobo eSmashwords al Kindle di Amazon che, attraverso il Kindle Self-Publishing, dà anche la possibilità di fare promozioni e avere visibilità.

Non è un caso se il tentativo più serio da parte di Mondadori di avvicinarsi al self-publishing abbia coinciso con l’accordo con Kobo. L’idea del sito scrivo.me – lanciato nel 2013 all’epoca della direzione di Riccardo Cavallero e, oggi, in fase di pausa, per non dire di abbandono – era creare un social network della scrittura per avvicinare le esigenze degli aspiranti autori alle competenze già presenti nella casa editrice senza coinvolgere direttamente il marchio. Un altro tentativo, ma più estemporaneo, è stato messo in atto da Rizzoli insieme al Corriere della sera con il concorso YouCrime, lanciato nel 2013 come “il primo contest di co-publishing digitale al mondo“. Nonostante la pomposità dell’annuncio, non risulta che l’iniziativa abbia avuto alcun seguito oltre alla pubblicazione in formato eBook del romanzo vincitore, Ultimo volo per Caracas di Gabriele Santoni.

A parte questo, i grandi gruppi editoriali italiani si sono avvicinati al self-publishing offrendo una sponda fisica, cartacea, a chi sperava di pubblicare. È il caso del torneo letterario Io Scrittore lanciato nel 2010 dal Gruppo GeMs, e diIlMioLibro nato nel 2011 in collaborazione con Feltrinelli e di Libromania creato nel 2012 da DeAgostini e Newton Compton. È una strategia che non può essere etichettata come “editoria a pagamento” perché gli editori in questione offrono servizi senza partecipare ai profitti, ma che secondo molti coincide con la cosiddetta “vanity press”, perché è un modo di rispondere al desiderio diffuso di vedere un libro con il proprio nome per di più associato, anche indirettamente, al marchio di un editore conosciuto. Chi decide di pubblicare con uno di questi siti è alla ricerca di un editore, non intende essere l’editore di se stesso: vuole utilizzare le possibilità di pubblicazione aperte dal digitale come una strada per arrivare all’editoria tradizionale, su carta, attirato dai rarissimi esempi di bestseller nati in questo modo, i più clamorosi dei quali sono Cinquanta sfumature di grigio di E L James e After di Anna Todd, e in Italia Ti prego lasciati odiare di Anna Premoli e Prima di dire addio di Giulia Leyman.

Il self-publishing è molto di più – e insieme molto di meno – di questo.  La sua vera novità consiste nel fatto che l’autore non divide i diritti con un editore, ma segue il libro in tutte le sue fasi, dalla scrittura alla scelta di titolo e copertina, decidendo se tradurlo e in quali lingue, come distribuirlo, pubblicizzarlo e venderlo. Al momento riguarda quasi esclusivamente il digitale, ma presto potrebbe cambiare anche il modo di fare libri di carta, i cui costi stanno rapidamente calando. Negli Usa, dove il rapporto tra libri stampati ed elettronici è di 74 a 26, è già successo. Nel 2014 le vendite da self-publishing sono state stimate in 185 milioni di libri elettronici e 9 milioni stampati. I libri auto-pubblicati varrebbero il 18 per cento del mercato totale del libro negli Usa, percentuale che sale addirittura al 24 considerando solo la fiction per adulti. Secondoalcune stime è un mercato che potrebbe presto arrivare a 52 miliardi di dollari, il doppio di quello dell’editoria tradizionale americana. In Italia i dati  sono parziali e comunque molto distanti, ma alcuni segni farebbero pensare che – al di là dei casi clamorosi in classifica – il self-publishing abbia già oggi un peso economico importante e crescente. Per capire lo stato di salute degli eBook e, quindi indirettamente del self-publishing, esistono tre indicatori: i siti peer to peer (quindi i download pirata dei libri), i blog che fanno recensioni di titoli auto-pubblicati e i servizi editoriali dedicati che, in effetti, negli ultimi tempi hanno registrato un’esplosione.

Un altro indicatore potrebbe essere Streetlib, la più importante piattaforma digitale italiana per l’auto-pubblicazione, che ha chiuso il 2015 con un fatturato superiore ai 4 milioni di euro. Nei fatti si tratta del primo editore italiano di eBook: ha pubblicato 2.845 eBook nel 2013, 6.471 nel 2014 (quando si chiamava ancora Narcissus.me) e circa 15 mila nel 2015. AIE, l’Associazione Italiana Editori, dovrebbe rendere noti i dati in primavera, ma l secondo, intorno ai 5 mila libri, dovrebbe essere YouCanPrint (sempre digitale, a dispetto del nome, e comunque distribuito da Streetlib), il terzo Mondadori con circa 3.500 titoli pubblicati. Le condizioni economiche per auto-pubblicarsi con Streetlib sono semplici e uguali per tutti: all’autore va il 60 per cento del prezzo di ogni libro, il retailer – cioè Amazon, Ibs, Apple, Barnes&Noble, insomma chi vende il libro online – prende il 30 per cento, mentre Streetlib trattiene il 10 per la semplice pubblicazione. I servizi ulteriori – editing, copertina, correzione di bozze – hanno tariffe fisse e una tantum. Il costo dell’eventuale traduzione è concordato direttamente tra traduttore e autore, ma di solito – racconta Antonio Tombolini, fondatore e direttore di Streetlib –  è in linea con quelli pagati dalle case editrici tradizionali. Anche sulle traduzioni Streetlib prende il 10 per cento. «La cosa interessante è che incominciano a muoversi anche le lingue secondarie, non solo l’inglese. La gente decide di farsi tradurre anche in francese, tedesco o spagnolo. E sempre più spesso capita che il traduttore accetti di abbassare la sua tariffa, in cambio della partecipazione dei diritti sulle vendite estere» .

Streetlib lavora in pari misura con autori auto-pubblicati e con case editrici medie e piccole. Nell’ultimo anno, dice Tombolini, le vendite di eBook sono cresciute del 60 per cento, quelle di libri autopubblicati del 90%. «Ormai mi capita di firmare assegni anche di parecchie decine di migliaia di euro. Ci sono autori che scrivono tanti libri, lavorano sulla comunicazione e sulla promozione – cioè che davvero fanno gli editori di se stessi – e che guadagnano bene. Altri autori che hanno pubblicato con grandi editori, per la prima volta decidono di auto-pubblicarsi». Tombolini – che però non fa i nomi degli autori in questione – parla di guadagni del tutto in linea (anzi) con quelli dell’editoria tradizionale: «Nel 2015 l’autore che ha venduto di più con noi ha incassato 56mila euro. Nel 2015 oltre 100 autori hanno guadagnato più di 10mila euro. Nel 2015 l’ebook che ha venduto di più ha venduto 18mila copie».

Più dell’80 per cento dei libri pubblicati e venduti da Streetlib sono di narrativa di genere: thriller, gialli, romanzi rosa. Il prezzo medio di un libro di narrativa è 3 euro (mentre un eBook di un editore tradizionale costa oltre 3 volte di più). In maggioranza chi compra ha tra i 40 e i 55 anni. Probabilmente sono lettori che leggono molto e in serie, ma senza grande attenzione alla qualità letteraria. «Ma forse è una fase», dice Tombolini «sono convinto che i saggi, per esempio, abbiano potenzialità enormi, solo che la tecnologia non è ancora adeguata: Kindle, Kobo, Googleplay, Apple iBook non permettono, per esempio, di gestire bene note o bibliografie. Non esiste nulla di equiparabile all’mp3 per la musica, cioè a un formato standard leggibile su tutti i device. È su questo che i grandi gruppi editoriali dovrebbero spingere». E invece come si stanno muovendo? «Mi sembra alla cieca, come pugili suonati», dice, «la vera arma dei grandi editori era la distribuzione, ora che il digitale gliela sta portando via, non sanno più che cosa fare. Bisogna interpretare il self-publishing non in chiave antagonista o come strada alternativa, ma usarlo per imparare da capo a fare l’editore, un mestiere che – davanti a un’offerta crescente e sempre più indifferenziata – inevitabilmente finirà per diventare ancora più importante».

 

Fonte [ilPost]

Maggio 2014: un Salone del libro ricco di novità

PUBBLICATO IL  aprile 19 -  News, Scrittura

Anche quest’anno torna l’appuntamento, al padiglione 5 del Salone Internazionale del Libro di Torino, con il Bookstock Village, spazio dedicato al pubblico di età compresa tra gli 0 ed i 20 anni. Il tema del Salone di quest’anno è il Bene, dunque il Bookstock Village ha cercato di concentrarsi su tale argomento, in particolare con due proposte: “Europa 16 anni” di Andrea Bajani e “Bene Male Mah” di Eros Miari. Infatti, “Europa 16 anni” cerca di affrontare il tema del Bene in rapporto alla realtà europea, mentre “Bene Male Mah” ne parla con l’innocenza di un bambino.

Vi sono poi gli 8 laboratori, che coprono una gamma vastissima di argomenti e che si possono definire il punto focale del Bookstock Village:

1. DigiLab, dotato di tablet, che dà la possibilità al pubblico di scoprire le nuove frontiere dell’editoria non cartacea

2. Holden, il laboratorio di scrittura curato, appunto, dalla Scuola Holden

3. Laboratorio d’Arte, curato dal Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli

4. OpLab, acronimo di Osservatorio Permanente sui Libri Accessibili per Bambini, a cura dell’Area Onlus. Esso propone libri accessibili, che utilizzano metodi di narrazione alternativi e parla della diversità in modo schietto e obiettivo

5. Laboratorio di Scienza, dove si trova la mascotte del Museo Regionale di Scienze Naturali, Dino, uno scheletro di dinosauro di 16 metri di lunghezza. Il laboratorio aiuta ad esplorare gli ambienti della Terra e dello spazio.

6. Nati per Leggere, dedicato alla fascia dagli 0 ai 6 anni di età

7. MultiLab, che affronta i temi più vari, dall’accoglienza ai migranti alla convivenza tra uomini e animali selvatici

8. Autori, una selezione delle proposte degli editori presenti al Salone, con temi che dovrebbero stimolare la riflessione

Oltre alla tecnologia, un altro tema “nuovo” affrontato quest’anno al Bookstock Village è quello del fumetto e della graphic novel, approfondito attraverso il laboratorio “Mumble Mumble”. Inoltre, il Panel Grandi Maestri omaggia quest’anno Mario Lodi, che tentò e riuscì a riformare il sistema educativo italiano del dopoguerra (mancato due settimane fa), e Roberto Denti, fondatore della prima libreria per ragazzi in Italia (ad un anno dalla scomparsa).

Torna, nel suo quinto anno di attività, anche il Bookblog, redazione giornalistica comprendente ragazzi dai 12 ai 18 anni di età, che racconta sia il Salone in tempo reale, sia il Salone Off, che consiste in appuntamenti esterni alla manifestazione con gli scrittori che saranno ospiti del Salone stesso. Inoltre, esso segue altre manifestazioni letterarie italiane, quali “Portici di carta” (Torino), il “Festival della rivista Internazionale” (Ferrara), “Pordenone Legge” (Pordenone) ed il “Dedica Festival” (sempre a Pordenone).  Il Bookblog collabora, inoltre, con “Europa 16 anni” di Andrea Bajani, il progetto “Adotta uno scrittore” e “Microfonando”, gestito da Valeria Dinamo (Radio Grp) e Francesca Bacinotti (Radio 101).

Il Salone del Libro è anche momento conclusivo di iniziative e concorsi, tra i quali i Comix Games, il Concorso “Nati per Leggere” (premiazione) e “Potere alla parola”, organizzato dal comitato torinese “Se non ora quando?”, per cui gli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia hanno realizzato uno spot, che sarà proiettato durante l’incontro.

Insomma, un programma ricco di eventi e variegato quello di quest’anno, che attraversa tutti i temi, le culture, i generi e le età.

Gli Sdraiati

PUBBLICATO IL  aprile 17 -  In Evidenza, Libri, Scrittura

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Il Manifesto culturale moderno dei genitori che devono sopravvivere o subire passivamente l’adolescenza dei propri figli, gli sdraiati appunto. Una presa di coscienza spietata ed ironica allo stesso tempo, circa la supremazia dei figli rispetto al ruolo presunto del Pater familias che non vuole certo dar luogo ad una indagine pedagogica. Ma soprattutto a cosa abbia portato l’evoluzione della figura paterna sempre più incapace di imporsi con autorità e che alla tenzone tipica generazionale preferisce la pigrizia di una amorevole attesa in un bar aspettando che comunque passi la “nottata”.

 

Lunedì 7 aprile alle 18, Michele Serra presenterà “Gli sdraiati” a Napoli.
Con lui, Diego De Silva.
Vi aspettiamo!
Libreria Feltrinelli Via S.Caterina a Chiaia, 23 Napoli

Eco E Calvino, Destini Incrociati

PUBBLICATO IL  agosto 9 -  News, Scrittura, Stampa, TV
LA REPUBBLICA del 17 luglio 2013
I rapporti fra i due scrittori negli atti di un convegno a Toronto
di PAOLO MAURI

Come in un “castello dei destini incrociati” l’Università di Toronto ha organizzato l’anno scorso un convegno intitolato «Tra Eco e Calvino» di cui ora escono gli atti con l’insegna “Relazioni rizomatiche”: insomma un’esplorazione delle radici evidenti e nascoste comuni ai due scrittori. Ne nasce un percorso articolato che Eco apre rivelando la sua predilezione antica per Il barone rampante letto nel 1957, quando aveva venticinque anni. Calvino aveva preso spunto da una storia raccontata dallo scultore Salvatore Scarpitta, che un bel giorno era salito su un albero e aveva deciso di rimanerci il più a lungo possibile. Se la storia di Scarpitta l’avesse presa in carico uno scrittore alla Mark Twain sarebbe rimasta fortemente americana, in sostanza la bravata di un ragazzo che stabilisce i suoi primati nel giardino di casa, invece Calvino l’aveva retrodatata al Settecento e legata all’Illuminismo, facendo di Cosimo un filosofo che cambia la prospettiva da cui guar- dare il mondo. È proprio quest’aspetto, insieme alla lingua cristallina di Calvino, ad affascinare il giovane Eco, che presto Calvino avrebbe incoraggiato a scrivere Opera aperta. Lo scopo del convegno, avverte il coordinatore Rocco Capozzi nella sua introduzione, «non è mai stato quello di voler dimostrare un Eco lettore di Calvino o viceversa… io partivo dall’idea di mettere a confronto l’intelligenza creativa che si manifesta nelle loro pratiche di lettura e scrittura». E, possiamo aggiungere, anche di traduzione. Renato Giovannoli documenta la precoce penetrazione di Borges nei dintorni del 1960 presso Sciascia, Eco e Calvino con la probabile aggiunta di Buzzati. Il punto di partenza è la traduzione di Ficcionescon il titolo La biblioteca di Babele nel numero 43 dei Gettoni di Vittorini. Siamo nel 1955. È probabile che Sergio Solmi avesse letto il libro in francese (era uscito da Gallimard nel ’51) e lo avesse consigliato a Einaudi per la traduzione italiana affidata a Franco Lucentini. Eco stesso ha ricordato di aver avuto da Solmi il consiglio di leggere quel libro una sera in piazza Duomo a Milano nel ’56 o ’57. Einaudi, aveva aggiunto Solmi, ne ha venduto meno di cinquecento copie. Sono gli anni in cui matura il Diario minimo dove Eco sviluppa il gusto per la parodia e l’invenzione bibliografica, giocando con strumenti critici molto raffinati per commentare magari i versi delle canzonette. Gli fa da guida ideale il Pierre Menard di Borges che riscrive alcune parti del Don Chisciotte esattamente come le ha scritte Cervantes. Quanto a Calvino, Giovannoli propone come primo riferimento borgesiano il saggio La sfida al labirinto che è del 1962, ma come potrà vedere chi leggerà l’intero e godibilissimo saggio, sia per Eco che per Calvino il rapporto con Borges e le sue biblioteche infinite e la sua predilezione per il fantastico e il combinatorio è piuttosto fitto e disteso negli anni. Ed è curioso che sia uno scrittore spesso definito reazionario a servire da guida in anni fortemente segnati dall’impegno politico e dai sensi di colpa. Eco e Calvino si incontrano ancora in uno snodo cruciale: la traduzione di Queneau. Se ne occupa Stefano Bartezzaghi in una relazione intitolata «Esercizi blu e Fiori di stile» che incrocia due celebri titoli di Queneau. Il tema di fondo è la traduzione del calembour, un gioco di parole di fronte al quale spesso chi traduce si arrende ricorrendo alla formula “gioco di parole intraducibile”. Calvino, lo confida a Franco Quadri in una lettera del 1965, avrebbe voluto leggere il testo con accanto una persona francese, magari lo stesso signor Queneau… Tradurre Queneau è un gioco di alto livello e una sfida: non sempre è possibile arrivare a una soluzione perfetta. Eco, che traduce gli Esercizi di stile, si pone il problema di essere fedele al testo che non vuol dire essere letterali: «Fedeltà significava capire le regole del gioco, rispettarle, e poi giocare una nuova partita con lo stesso numero di mosse». Così come aveva aperto il convegno (ricco di interventi che qui non posso nemmeno citare) Eco chiude con una serie di osservazioni e con una confessione. «A me non interessa nulla di me stesso. Per questo sono sempre restato estraneo alla psicoanalisi. Invece di spendere soldi dallo psicanalista per capire chi sono ne guadagno scrivendo romanzi in cui racconto chi sono gli altri». Un bel labirinto, direbbe Borges.

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