Archive : Category

I 100 libri preferiti di David Bowie – Il Post -

POSTED ON January 18  - POSTED IN Libri, Musica, News

Ci sono Dante e Omero, Don DeLillo, Francis S. Fitzgerlald, e la storia d’amore scritta da un duca italiano che ha ispirato “Heroes”

Dopo la notizia della morte di David Bowie – avvenuta domenica a causa di un cancro – si è scritto a lungo della sua musica, della sua importanza nel mondo della moda, del suo lavoro da attore e di alcune sue posizioni per i diritti delle minoranze. E poi c’è chi ha ritirato fuori la lista dei cento libri preferiti di Bowie, che aveva pubblicato lui stesso su Facebook nell’ottobre del 2013. Molti riguardano la storia della musica, come Mystery Train di Greil Marcus, considerato uno dei migliori libri sul Rock ‘n Roll. Ci sono alcuni classici della letteratura anglosassone come Rumore bianco di Don DeLillo, Fra le lenzuola e altri racconti di Ian McEwan, 1984 di George Orwell, Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald e Sulla Strada Jack Kerouac. Di italiani ci sono l’Inferno di Dante, Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e Una tomba per un delfino, scritto dal duca Alberto Denti di Pirajno – che fu governatore di Tripoli in Libia durante il colonialismo – e pubblicato nel 1956: racconta la storia d’amore tra un soldato italiano e una ragazza somala durante la Seconda guerra mondiale e – stando all’autorevole biografia su Bowie scritta da Nicholas Pegg – Bowie la considerava «una storia d’amore magica e bella e ha in parte ispirato la mia canzone Heroes». Di seguito la lista ordinata dai libri più recenti ai più vecchi.

The Age of American Unreason (2008) di Susan Jacoby,
La breve favolosa vita di Oscar Wao (2007) di Junot Díaz, Mondadori
La sponda di Utopia (2007) di Tom Stoppard, Sellerio
Teenage: The Creation of Youth 1875-1945 (2007) di Jon Savage,
Ladra di Sarah Waters, Ponte delle grazie 2013
Processo a Henry Kissinger di Christopher Hitchens, Fazi 2003
Il gabinetto delle meraviglie di mr. Wilson (1999) di Lawrence Weschler, Adelphi
A People’s Tragedy: The Russian Revolution 1890-1924 (1997) di Orlando Figes,
The Insult (1996) di Rupert Thomson,
Wonder Boys (1995) di Michael Chabon,
The Bird Artist (1994) di Howard Norman,
Furoreggiava Kafka (1993 )di Anatole Broyard, Sylvestre Bonnard
Oltre il Brillo Box. Il mondo dell’arte dopo la fine della storia di Arthur C. Danto, Marinotti
Sexual personae: arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson di Camille Paglia, Einaudi
David Bomberg (1988) di Richard Cork,
Sweet soul music. Il rhythm’n’blues e l’emancipazione dei neri d’Americadi Peter Guralnick, Arcana
Le vie dei canti (1986) di Bruce Chatwin, Adelphi
Hawksmoor (1985) di Peter Ackroyd
Nowhere To Run: The Story of Soul Music (1984) di Gerri Hirshey
Notti al circo di Angela Carter, Corbaccio
Money di Martin Amis, Einaudi
Rumore bianco di Don DeLillo, Einaudi
Il pappagallo di Flaubert di Julian Barnes, Einaudi
The Life and Times of Little Richard di Charles White,
Storia del popolo americano: Dal 1492 a oggi di Howard Zinn, Il Saggiatore
Una banda di idioti di John Kennedy Toole, Marcos y Marcos
Interviste a Francis Bacon di David Sylvester, Skira
Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, Mondadori
Gli strumenti delle tenebre di Anthony Burgess, Rizzoli
Raw (rivista di grafica) 1980-91
Viz (rivista) 1979 –
I vangeli gnostici (1979) di Elaine Pagels, Mondadori
Metropolitan Life (1978) di Fran Lebowitz,
Fra le lenzuola e altri racconti (1978) di Ian McEwan, Einaudi
The Paris Review. Interviste (1977)
Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (1976) di Julian Jaynes, Adelphi
Tales of Beatnik Glory (1975) di Ed Saunders
Mystery train. Visioni d’America nel rock (1975) di Greil Marcus, Editori Riuniti
Selected Poems (1974) Frank O’Hara
Before the Deluge: A Portrait of Berlin in the 1920s (1972) di Otto Friedrich
Nel castello di Barbablù (1971) di George Steiner, Garzanti
Octobriana and the Russian Underground (1971) di Peter Sadecky
The Sound of the City: The Rise of Rock and Roll (1970) di Charlie Gillete
Riflessioni su Christa T (1968) di Christa Wolf
Awopbopaloobop Alopbamboom: The Golden Age of Rock (1968) di Nik Cohn
Il maestro e Margherita (1967) di Mikhail Bulgakov, Fermento
Journey into the Whirlwind (1967) di Eugenia Ginzburg,
Ultima fermata a Brooklyn (1966) di Hubert Selby Jr., Feltrinelli
A sangue freddo (1965) di Truman Capote, Garzanti
Città di notte (1965) di John Rechy, Marco Tropea Editore
Herzog (1964) di Saul Bellow, Mondadori
Puckoon,  (1963) di Spike Milligan
The American Way of Death (1963) di Jessica Mitford,
Il sapore della gloria (1963) di Yukio Mishima, Feltrinelli
La prossima volta Il fuoco (1963) di James Baldwin, Feltrinelli
Arancia Meccanica (1962) di Anthony Burgess, Einaudi
Nel ventre della balena (1962) di George Orwell, Bompiani
Gli anni fulgenti di miss Brodie (1961), Muriel Spark, Adelphi
Private Eye, rivista satirica britannica pubblicata dal 1961
La via senza testa. Lo zen e la riscoperta dell’ovvio (1961), Douglas Harding, 1961
Silenzio, John Cage, 1961
Strange People (1961), Frank Edwards
L’io diviso (1960), R. D. Laing, Einaudi
All The Emperor’s Horses (1960), David Kidd
Billy Liar (1959), Keith Waterhouse
Il Gattopardo (1958), Giuseppe Tomasi Di Lampedusa, Feltrinelli
Sulla strada (1957), Jack Kerouac, Mondadori
I persuasori occulti (1957), Vance Packard
La stanza di sopra (1957), John Braine, Garzanti
Una tomba per un delfino (1956), Alberto Denti di Pirajno
The Outsider (1956), Colin Wilson
Lolita (1955), Vladimir Nabokov, Adelphi
1984 (1949), George Orwell, Mondadori
The Street (1946), Ann Petry
Ragazzo negro (1945), Richard Wright, Einaudi
The Portable Dorothy Parker (1944) di Dorothy Parker,
Lo straniero (1942) di Albert Camus, Bompiani
Il giorno della locusta (1939) di Nathanael West, et al. edizioni
Beano, (fumetto) 1938 –
La strada di Wigan Pier (1937) di George Orwell, Mondadori
Mr Norris se ne va (1935) di Christopher Isherwood, Einaudi
English Journey (1934) di J.B. Priestley
Infants of the Spring (1932) di Wallace Thurman,
Il ponte La torre spezzata (1930) di Hart Crane, Mauro Pagliai Editore
Corpi vili (1930) di Evelyn Waugh, Bompiani
Mentre morivo (1930) di William Faulkner, Adelphi
Il 42esimo parallelo (1930) di John Dos Passos, BUR
Berlin Alexanderplatz, (1929) di Alfred Döblin, BUR
Passing, (1929) Nella Larsen, Sellerio
L’amante di Lady Chatterley (1928) di D.H. Lawrence, Giunti
Il Grande Gatsby (1925) di Francis Scott Fitzgerald, Edizioni Clandestine
La terra desolata (1922) T.S. Eliot, BUR
BLAST (1914–15) di Wyndham Lewis
McTeague (1899) di Frank Norris
La storia della magia con un’esposizione chiara e precisa delle sue regole, dei suoi riti e dei suoi misteri (1896) di Eliphas Lévi, Edizioni Brancato
Canti di Maldoror (1869) di Lautréamont, Feltrinelli
Madame Bovary (1856) di Gustave Flaubert, Edizioni Clandestine
Zanoni (1842) di Edward Bulwer-Lytton, Ascoltalibri Edizioni
Inferno, da “La Divina Commedia”, (1308–21) di Dante Alighieri, Edizioni Clandestine
Iliade (800 A.C) di Omero, Infilaindiana edizioni

 

Fonte [ilPost]

Il mito della prevenzione del male con internet – di Carlo Blengino -

POSTED ON January 18  - POSTED IN News, Web

In questi giorni non c’è governo europeo che non ipotizzi maggiori poteri ai propri servizi di intelligence e non c’è agenzia preposta alla sicurezza nazionale che non richieda maggiore libertà nella cosiddetta digital net-work intelligence (così la chiama l’NSA): sorveglianza di massa, guerra alla crittografia, richieste di accesso ai sistemi operativi dei device con backdoor dedicate e, ovviamente, totale trasparenza delle banche dati, pubbliche o private che siano.

Il dibattito che ne segue si riduce ad uno scontro sicurezza contro privacy sulle reti di comunicazione digitale. Ma la vittoria è scontata: svendiamo la nostra privacy per farci dire qual è la pizzeria più vicina o per risparmiare sull’assicurazione auto, come potremmo, noi che nulla abbiamo da nascondere, non diventare di buon grado ancor più trasparenti verso lo Stato, se ciò consentirà di sconfiggere il terrorismo dell’IS? È una semplificazione disarmante, e per quanto si possa esser snowdeniani e paladini del diritto alla protezione dei dati, di fronte a quanto sta avvenendo in Europa mette male tener la posizione parlando di privacy.

Per la verità non è neppure necessario scegliere come terreno di scontro il terrorismo; basta la lotta alla mafia, o alla corruzione; per non parlare della pedofilia e della droga. E d’altra parte Renzi a Venaria, all’Italian digital day, è stato chiaro: <<Io sostengo che una delle conseguenze della digitalizzazione è che l’evasione fiscale sarà ridotta a zero>>

Ne sono convinto anch’io; ed è come dire che il digitale, anche in Italia, rende possibile l’impossibile. Ma a quale costo?

I digital champions sono riusciti a trasmettere ai nostri governanti e alla macchina dello stato l’ottimismo degli innovatori, quello delle startup e delle app che offrono  una soluzione ad ogni problema (e che talvolta ci impongono una soluzione anche dove non c’era problema): possiamo salvare il pianeta dall’inquinamento monitorando ogni nostro consumo e possiamo controllare ogni angolo delle nostre città per  prevenire ogni devianza: la trasparenza totale ci salverà dal malaffare e gli oggetti connessi, molti in un futuro prossimo, non potranno più esser rubati e si auto-proteggeranno dalla ricettazione. Non è proprio così, ma la narrazione è quella.

C’è una parte del discorso di Renzi che merita di esser trascritta:

«Io sono esaltato dalle possibilità che la tecnologia dà ad ognuno di noi, io sono per fare più controlli, per esser più operativo, per avere un sistema di informatica maggiore, di digitalizzazione delle immagini, di riuscire a fare il riconoscimento facciale, io sono per mettere in comune tutte le banche dati, io sono per far si che ogni telecamera sia a disposizione della forza pubblica, per poter dire che quella realtà lì io riconosco una persona. Io sono per taggare”
È una forma di soluzionismo da tecno-entusiasti, che funziona perfettamente nella comunicazione – per fortuna (per ora) un po’ meno nella realtà – e che se applicato alla sicurezza nazionale, al terrorismo e in generale alla prevenzione dei crimini e delle devianze, opportunamente nutrito da paura e insicurezza,  non trova limite nella privacy.

Infatti non è una questione di privacy. O almeno non nel concetto di privacy che ancora ci portiamo dentro, per cui se nulla hai da nascondere, nulla hai da temere. Una parte sempre maggiore della nostra vita è tradotta e memorizzata in dati remoti: i nostri desideri e le nostre passioni sono ricerche su Google e siti visitati, le nostre comunicazioni e i nostri movimenti sono fissati negli smartphone e ridondati nel cloud, le nostre spese e i nostri consumi sono catalogati, le nostre amicizie sono reti sociali scandagliate da mille applicazioni. Queste informazioni non sono solo “dati” più o meno sensibili, più o meno segreti da tutelare con un OK sul banner dei cookie. Quella roba lì, messa insieme, siamo noi. E siamo noi in formato macchina, o come dicono gli informatici, “machine readable”. È il nostro corpo digitale.

Se lo stato intende avere libero accesso al nostro corpo digitale per fini di prevenzione e di sicurezza nazionale, individuare come unico limite la privacy vuol dire minimizzare il problema e averla vinta: nessuno di noi si sente un obiettivo da servizi segreti, non abbiamo nulla da nascondere e tutto sommato ci sentiamo sardine nel branco, protetti da una normalità al di sopra di ogni sospetto. Ma per prevenire l’attentato o il crimine, e perché no l’evasione, la devianza o l’immoralità, non è l’informazione sul singolo soggetto ciò che serve: quello è materiale della polizia giudiziaria, della magistratura, e la ricerca delle prove segue le garanzie e i vincoli del codice di procedura penale. Per l’intelligence  ciò che occorre è proprio il branco di sardine, la massa. Nell’attività di prevenzione la richiesta di maggiori poteri nella digital net-work analysis risponde all’esigenza di creare modelli situazionali di rischio. Trovare il pericolo, piuttosto che investigare su un pericolo noto. E per taggarne uno devi scansire tutti. Devi dividere la “normalità” da ciò che è sospetto, con modelli anonimi: saremo poi noi, visitando quel sito, frequentando quel soggetto già taggato, usando quella tecnologia sospetta o professando la religione sbagliata ad infilarci inconsciamente nel gruppo dei sospetti. E una volta finiti lì, con un punteggio di pericolosità a noi ignoto, ne subiremo le conseguenze.

Nel mito della prevenzione sul web che ci proteggerà dal male – ce ne sarà sempre uno – l’operazione di intelligence diventa inevitabilmente una sorta di selezione sociale. Condotte del tutto lecite (l’uso della crittografia, la frequentazione di un sito anarchico, o una fede sconveniente) diventano condotte pericolose, da evitare per non modificare il nostro (ignoto) rating di rischio. Si creano poi delle specie di pre-crimini, azioni lecite che diventano criminogene in quanto commesse da persone che corrispondono ad un determinato profilo astratto, di terrorista, di evasore, di oppositore… Se poi i modelli sono generati da algoritmi, e così non può che essere, si crea una automatizzazione, se non della virtù, almeno della normalità rassicurante. Ci si comporterà bene non per una scelta etica, ma per imposizione tecnologica.

Uno scenario così non è evidentemente una questione di privacy, ma una questione di più consolidate libertà. C’è di mezzo la libertà d’espressione, di informazione, di associazione e di religione. È minata la presunzione d’innocenza e il rischio di discriminazioni diviene inevitabile. È la dignità delle persone a essere minata.

Il libero accesso dello stato al nostro corpo digitale, quale che sia la buona ragione perseguita, non è dissimile da quello del re sul corpo fisico dei sudditi. Lì poi ci fu la Magna Carta Libertatum (1215), poi l’Habeas Corpus Act – nome profetico “che tu abbia il corpo” – (1679)  e poi arrivarono le Costituzioni e i diritti fondamentali.

Prima di adottare soluzioni facili, è bene sapere quali sono i diritti in gioco. Giusto per non regredire volontariamente là dove, pare, vorrebbero portarci i terroristi.

Fonte [ilPost]

SIAE, non è una tassa ma così non funziona – di Guido Scorza -

POSTED ON January 18  - POSTED IN Scrittura, Web

Tra storie di ispettori SIAE che si presentano la notte di capodanno a riscuotere diritti per la musica che anima feste private in strutture che ospitano disabili, la mozione approvata dai giorni scorsi dal Consiglio Regionale della Lombardia per cancellare ogni compenso dovuto per le manifestazioni organizzate dalle amministrazioni locali e dalle associazioni senza scopo di lucro e la dura risposta della Società italiana autori ed editori, il 2016 della SIAE non si è certo aperto nel modo migliore possibile.

Ancora una volta la Società autori ed editori che fu di Verdi e Carducci attira l’attenzione persino di un’istituzione pubblica come un Consiglio Regionale non per i propri meriti nel supporto o nella promozione della cultura nel nostro Paese ma, al contrario, per la rigidità e irragionevolezza delle proprie regole e del proprio agire.

Prima di proseguire, però, val la pena mettere un chiaro una questione per evitare ogni equivoco o fraintendimento: chiunque usa musica altrui nell’ambito di qualsivoglia manifestazione, evento, festa o festino è giusto che chieda il permesso al titolare dei diritti e/o a chi lo rappresenta perché, in fondo, utilizza lo sforzo dell’attività creativa di quest’ultimo per scopi più o meno nobili e/o per far soldi piuttosto che, semplicemente, per intrattenere chicchessia.

Questo principio non ha niente a che fare con le tasse ma rappresenta, al contrario, una regola basilare di civiltà e buon senso: per usare qualcosa di qualcun altro, si chiede permesso che si tratti di un oggetto materiale o immateriale come i diritti d’autore.

Sgombrato, tuttavia, il campo dal rischio di equivoci, non si può nascondere che se così tanto frequentemente soggetti pubblici e privati percepiscono regole ed azioni della società di Viale della letteratura come più simili a quelle di un odioso esattore delle tasse che a quelle di un ente – peraltro pubblico – di promozione e tutela del patrimonio culturale italiano una ragione deve pur esserci e si tratta, evidentemente, di una ragione sulla quale la SIAE, chi la governa e chi, nel Governo, dovrebbe vigilare sul suo operato, farebbero bene ad interrogarsi.

Passi che il gestore di un bar percepisca come un balzello anziché come un sacrosanto compenso per diritti d’autore il corrispettivo della licenza che paga, ogni anno, alla SIAE ma che la percezione sia analoga anche da parte di un Consiglio Regionale come quello della Lombardia sembra, davvero, il segno tangibile che qualcosa non funziona.

E che qualcosa non funzioni, in effetti, è indubitabile.

Tanto per cominciare non funzionano le regole del gioco imposte dalla SIAE e non dalla legge sul diritto d’autore.

Mentre, infatti, è sacrosanto che un autore abbia diritto a farsi pagare anche quando la sua musica è utilizzata in una festa privata alla quale partecipano persone meno fortunate come i disabili o in un evento organizzato da un’amministrazione pubblica se lo desidera è meno ragionevole – ed anzi del tutto irragionevole – che un autore non sia in condizione di rinunciare a qualsivoglia compenso solo ed esclusivamente quando la sua musica è utilizzata in occasioni di questo genere.

Non c’è ragione al mondo per la quale un autore dovrebbe essere privato della libertà di lasciare che la sua musica sia utilizzata, per scopi non commerciali, da chicchessia – o solo da talune categorie di soggetti – senza incassare neppure un euro.

Eppure, ad oggi, un autore iscritto alla SIAE una scelta tanto semplice e nobile al tempo stesso, non la può fare.

Né, d’altra parte, chi organizza un evento senza scopo di lucro ha la possibilità di scegliere in un repertorio firmato SIAE una playlist, utilizzabile senza pagare ciò che, magari, non si può permettere e senza con ciò sentirsi pirata.

Questa regola figlia esclusivamente dell’incapacità della Società autori ed editori di gestire la raccolta ed il riparto dei diritti d’autore in modo più moderno e meno da gabelliere che da ente culturale è una regola che deve essere cambiata ed in fretta.

Lo impone, tra l’altro, la Direttiva dell’Unione europea che il nostro Paese dovrà attuare al più tardi in primavera nella quale, non a caso, il legislatore di Bruxelles ha messo nero su bianco che “Occorre che gli organismi di gestione collettiva che gestiscono diversi tipi di opere e altri materiali protetti, come opere letterarie, musicali o fotografiche, permettano ai titolari dei diritti di gestire in maniera altrettanto flessibile i diversi tipi di opere e altri materiali protetti. Per quanto concerne gli utilizzi non commerciali, gli Stati membri dovrebbero provvedere affinché gli organismi di gestione collettiva prendano i provvedimenti necessari per assicurare che i titolari dei diritti possano esercitare il diritto di concedere licenze in relazione a tali utilizzi. Tali provvedimenti dovrebbero includere, tra l’altro, una decisione dell’organismo di gestione collettiva in merito alle condizioni relative all’esercizio di tale diritto nonché la fornitura di informazioni ai membri su tali condizioni.”.

Ma regole a parte, se la SIAE vuole scrollarsi di dosso l’immagine che l’accompagna ormai da decenni di un carrozzone inefficiente e poco trasparente è fondamentale che restituisca ai titolari dei diritti – che si tratti degli autori o degli editori – maggiore libertà nella gestione dei propri diritti e nel rapporto con gli utilizzatori.

In assenza, infatti, siamo condannati a continuare ad assistere al divaricamento di una frattura che già oggi appare difficilmente sanabile tra utilizzatori delle opere e titolari dei diritti che fa apparire le due categorie più rivali e contrapposte che componenti di una stessa società unita da un patto sociale profondo come quello che, per decenni, c’è stato tra chi produce arte e cultura e chi la utilizza.

Fonte [L’Espresso]

 

Tim Berners-Lee: “Vi svelo i prossimi 25 anni di Internet” – di Riccardo Luna -

POSTED ON January 18  - POSTED IN News, Web

“COME VA in Italia con il web? È vero che state un po’ recuperando il ritardo?”. L’intervista con Tim Berners Lee comincia al contrario. Il papà del world wide web chiede informazioni sul paese dove è appena atterrato e dove passerà due giorni intensi: oggi lancio della campagna di Tim che lo vedrà come testimonial di lusso su tutte le tv all’insegna della generosità della rete; domani mattina, in una sala della presidenza del Consiglio, un seminario con cento esponenti dell’agenda digitale italiana per fare il punto sulle cose da fare alla vigilia di un pacchetto di decreti sul digitale; e la sera bagno di folla sul palco dell’Auditorium per i 40 anni di Repubblica , uno dei primi giornali del mondo ad andare sul web che non a caso festeggia con chi il web lo ha creato.

Lui ha appena festeggiato il 25esimo compleanno del primo sito della storia, una paginetta in bianco e nero con la spiegazione di cosa fosse un ipertesto (un testo con dei link, per dirla banalmente; la base del web, sostanzialmente). Il 20 dicembre scorso il Cern di Ginevra, dove lavorava quando a 35 anni inventò il www, ne ha celebrato le nozze d’argento, “anche se io francamente non ricordo fosse davvero quel giorno, secondo me era novembre, ma non importa, il web per qualche motivo viene festeggiato ogni anno”.

Non è strano: dipende se uno considera la prima proposta che il fisico inglese fece al suo superiore, quella dove gli risposero che era vaga ma eccitante; il primo prototipo, che si chiamava Enquire e finì male perché il dischetto dove era scritto il codice andò perduto; o il primo sito, appunto, realizzato con il NeXT, un avveniristico personal computer che Steve Jobs fece quando non era in Apple. “Per il web non ci fu un vero momento di inizio quanto piuttosto un percorso non ancora finito”, dice col tono paziente di chi questa frase l’ha già detta un milione di volte.

Venticinque anni dopo il primo, i siti web nel mondo sono quasi un miliardo: cosa resta da fare?
“Le cose che vediamo sono così meravigliose che uno può dire che la missione ormai è finita. Ma ci sono tante persone che non sono connesse alla rete, il lavoro da fare è ancora tanto. E poi va aggiunto che il modo in cui molte persone usano la rete non è il massimo, non è esattamente quello strumento per collaborare che avevo immaginato 25 anni fa”.

Siamo in una fase in cui ogni giorno qualcuno dice che la rete è pericolosa e che il web è “rotto”, non funziona come dovrebbe. È diventato uno strumento di censura e sorveglianza di massa o per vendere i nostri dati.
“Il web non è diverso dall’umanità, che è fatta di cose orribili e altre meravigliose. Chi accusa il web di avere un lato oscuro, dovrebbe riflettere sul fatto che quel lato oscuro è nell’umanità stessa. Ciò detto io sono ottimista e resto convinto che il saldo finale, il bilancio di una umanità più connessa resta positivo. In ogni caso è un buon segno della maturità di Internet il fatto che la gente si faccia delle domande sugli effetti del web”.

In Europa gli ultimi dati dicono che c’è un rallentamento del digitale: la crescita di nuovi utenti mostra segni di stanchezza. Una parte della popolazione inizia ad essere diffidente?
“Pensate a uno che vive su una montagna, perché dovrebbe cambiare il suo stile di vita con la rete? Magari non capisce perché dovrebbe farlo, teme di perdere le sue tradizioni. Che fare? Difendere quelle tradizioni ma portare lo stesso la rete sui cucuzzoli delle montagne e gentilmente spiegare che questo renderà la loro vita migliore. Consentendo allo Stato di avere servizi pubblici più efficienti e meno costosi”.

L’Italia si sta finalmente muovendo, ma ancora oggi in tutte le classifiche è in fondo: qual è il suo consiglio?
“Un paese come il vostro, con tanta cultura, con tanta bellezza, non merita di stare così indietro. È uno spreco incredibile. Credo che sia importante far passare il messaggio che il digitale non sono migliora la vita, la rende più facile e divertente, ma contribuisce in modo determinante alla crescita economica. Vi rende più ricchi”.

Abbiamo il più alto numero di non utenti di Internet: 23 milioni. Come convincerli?
“Credo che usare la televisone pubblica sia l’unica strada. Come ha fatto la Bbc nel Regno Unito, serve la tv per contribuire al cambio di paradigma culturale necessario ad abbracciare consapevolmente il digitale. Le persone che guidano la Rai lo hanno capito che hanno un obbligo civile di svolgere questa missione?”.

Venerdì il consiglio dei ministri approva finalmente il Foia, il Freedom of Information Act che consentirà a tutti i cittadini di ottenere informazioni e dati dalla pubblica amministrazione: è una svolta?
“Dipende. Può esserlo. Gli Stati Uniti hanno un Foia molto efficace, il Regno Unito lo sta indebolendo. Dovete fare un Foia vero, con poche scuse per negare i dati ai cittadini”.

La Camera dei deputati ha approvato all’unanimità un Bill of Rights di Internet che però per ora è solo un insieme di raccomandazioni. Serve davvero?
“Sì, in tutti i paesi serve stabilire un insieme di principi sulla vita digitale. Ma poi è fondamentale che il governo li metta in pratica”.

Lei da oggi è testimonial di un grande operatore telefonico e delle rete: come si concilia con le sue battaglie in difesa della neutralità della rete che gli operatori invece contestano per fare più profitti?
“Ne ho parlato con l’amministratore delegato di Tim, Marco Patuano, e posso dire di averlo trovato aperto sul tema. Ma è una questione che riguarda tutti gli utenti, ciascuno di noi deve impegnarsi su questo”.

In occasione del suo 60esimo compleanno le hanno dedicato una grande statua in bronzo: a parte i dittatori credo

che sia l’unico essere vivente ad averne una. Come lo vive?
“Le dico solo che preferisco non guardarla”.

È immortalato con un zainetto in spalla mentre cammina.
“Perché la mia missione non è finita”.

 

Fonte [La Repubblica]

Self-publishing – di Giacomo Papi -

POSTED ON January 18  - POSTED IN Libri, Scrittura

Penguin Random House, la più grande casa editrice al mondo, ha vendutoAuthor Solutions, un servizio a pagamento – peraltro molto costoso – con cui autopubblicarsi: la decisione sancisce di fatto il ritiro di Penguin Random House dal mercato del self-publishing. Author Solutions è stata comprata dalla società finanziaria americana Najafi Companies, ma non sono stati resi noti i termini economici dell’accordo. Author solutions era stata acquistata da Pearson, il gruppo editoriale di cui fa parte Penguin Random House, il 19 luglio 2012 per 116 milioni di dollari. Nell’annunciare la cessione, Markus Dohl, l’amministratore delegato di Penguin Random House, ha detto: «Con questa vendita, ribadiamo il nostro focus sulla pubblicazione di libri attraverso i nostri 250 marchi editoriali in tutto il mondo, e che il nostro impegno è mettere in contatto i nostri autori e le loro opere con i lettori, ovunque essi si trovino». Penguin Random House annuncia, insomma, la decisione di tornare a fare libri soltanto nel modo tradizionale. Qualche mese fa anche HarperCollins, il secondo editore a livello mondiale, aveva chiuso il suo analogo sito Authonomy.com, la cui pagina oggi, appare abbastanza desolante. Potrebbero essere segnali della fuga dei grandi editori dal self-publishing dopo l’entusiasmo degli anni passati o per lo meno la dimostrazione che oggi la grande editoria non sa ancora come gestirlo.

L’acquisizione di Author Solutions nel 2012 aveva sollevato enormi polemiche: Penguin Random House fu accusata di inquinare il proprio marchio e fu anche oggetto di una causa negli Stati Uniti intentata da alcuni autori auto-pubblicati che la accusavano di avere lucrato sulle loro aspirazioni. Accedere ai servizi di Author Solutions, infatti, costava incomparabilmente più delle normali tariffe, anche migliaia di sterline. Se qualcuno decideva di spenderle era per il prestigio della casa editrice e la speranza di entrare nella sua orbita. In questo modo, Author solutions aggirava almeno in parte quelli che sono da sempre i grandi problemi nel rapporto tra editoria tradizionale e self-publishing: in primo luogo pubblicare autori senza averli prima selezionati significa perdere la garanzia di qualità su cui ogni casa editrice si basa e allontanare gli autori più importanti; il fatto poi che il self-publishing, per definizione, imponga testi non selezionati ed editati espone al rischio di pubblicare libri che hanno problemi legali, che istigano a compiere reati gravi o sono frutto di plagio. Ma passare dal self-publishing al co-publishing accentua i problemi di inquinamento di cui sopra.

Il self-publishing è esploso intorno al 2009 con il lancio dei primi lettori di eBook di massa, il Kindle di Amazon e il Nook di Barnes&Noble. Quando, subito dopo, gli eBook auto-pubblicati hanno cominciato a fare numeri importanti nei mercati di lingua inglese, i grandi editori se ne sono accorti e ci si sono buttati. Quella fase sembra terminata, anche in Italia. Per generare grandi numeri, e quindi profitti, i libri auto-pubblicati – elettronici o di carta che siano – hanno bisogno di un mercato esteso, come appunto quello in lingua inglese: secondo Nielsen nel 2015 il self-publishing sarebbe arrivato a una percentuale compresa tra 14 il 18 per cento dell’intero mercato del libro degli Stati Uniti. L’altro problema è che per essere letto un testo auto-pubblicato ha bisogno, più che di un editore tradizionale, di chi i libri su Internet  li distribuisce e di chi controlla i supporti su cui i libri vengono letti. Figure che spesso coincidono. Digitalbookworld calcola che Amazon produce oggi attraverso le suepiattaforme l’85 per cento circa dei titoli autopubblicati e che i maggiori siti di self-publishing siano legati agli eReader più diffusi: Wrintinglife al Kobo eSmashwords al Kindle di Amazon che, attraverso il Kindle Self-Publishing, dà anche la possibilità di fare promozioni e avere visibilità.

Non è un caso se il tentativo più serio da parte di Mondadori di avvicinarsi al self-publishing abbia coinciso con l’accordo con Kobo. L’idea del sito scrivo.me – lanciato nel 2013 all’epoca della direzione di Riccardo Cavallero e, oggi, in fase di pausa, per non dire di abbandono – era creare un social network della scrittura per avvicinare le esigenze degli aspiranti autori alle competenze già presenti nella casa editrice senza coinvolgere direttamente il marchio. Un altro tentativo, ma più estemporaneo, è stato messo in atto da Rizzoli insieme al Corriere della sera con il concorso YouCrime, lanciato nel 2013 come “il primo contest di co-publishing digitale al mondo“. Nonostante la pomposità dell’annuncio, non risulta che l’iniziativa abbia avuto alcun seguito oltre alla pubblicazione in formato eBook del romanzo vincitore, Ultimo volo per Caracas di Gabriele Santoni.

A parte questo, i grandi gruppi editoriali italiani si sono avvicinati al self-publishing offrendo una sponda fisica, cartacea, a chi sperava di pubblicare. È il caso del torneo letterario Io Scrittore lanciato nel 2010 dal Gruppo GeMs, e diIlMioLibro nato nel 2011 in collaborazione con Feltrinelli e di Libromania creato nel 2012 da DeAgostini e Newton Compton. È una strategia che non può essere etichettata come “editoria a pagamento” perché gli editori in questione offrono servizi senza partecipare ai profitti, ma che secondo molti coincide con la cosiddetta “vanity press”, perché è un modo di rispondere al desiderio diffuso di vedere un libro con il proprio nome per di più associato, anche indirettamente, al marchio di un editore conosciuto. Chi decide di pubblicare con uno di questi siti è alla ricerca di un editore, non intende essere l’editore di se stesso: vuole utilizzare le possibilità di pubblicazione aperte dal digitale come una strada per arrivare all’editoria tradizionale, su carta, attirato dai rarissimi esempi di bestseller nati in questo modo, i più clamorosi dei quali sono Cinquanta sfumature di grigio di E L James e After di Anna Todd, e in Italia Ti prego lasciati odiare di Anna Premoli e Prima di dire addio di Giulia Leyman.

Il self-publishing è molto di più – e insieme molto di meno – di questo.  La sua vera novità consiste nel fatto che l’autore non divide i diritti con un editore, ma segue il libro in tutte le sue fasi, dalla scrittura alla scelta di titolo e copertina, decidendo se tradurlo e in quali lingue, come distribuirlo, pubblicizzarlo e venderlo. Al momento riguarda quasi esclusivamente il digitale, ma presto potrebbe cambiare anche il modo di fare libri di carta, i cui costi stanno rapidamente calando. Negli Usa, dove il rapporto tra libri stampati ed elettronici è di 74 a 26, è già successo. Nel 2014 le vendite da self-publishing sono state stimate in 185 milioni di libri elettronici e 9 milioni stampati. I libri auto-pubblicati varrebbero il 18 per cento del mercato totale del libro negli Usa, percentuale che sale addirittura al 24 considerando solo la fiction per adulti. Secondoalcune stime è un mercato che potrebbe presto arrivare a 52 miliardi di dollari, il doppio di quello dell’editoria tradizionale americana. In Italia i dati  sono parziali e comunque molto distanti, ma alcuni segni farebbero pensare che – al di là dei casi clamorosi in classifica – il self-publishing abbia già oggi un peso economico importante e crescente. Per capire lo stato di salute degli eBook e, quindi indirettamente del self-publishing, esistono tre indicatori: i siti peer to peer (quindi i download pirata dei libri), i blog che fanno recensioni di titoli auto-pubblicati e i servizi editoriali dedicati che, in effetti, negli ultimi tempi hanno registrato un’esplosione.

Un altro indicatore potrebbe essere Streetlib, la più importante piattaforma digitale italiana per l’auto-pubblicazione, che ha chiuso il 2015 con un fatturato superiore ai 4 milioni di euro. Nei fatti si tratta del primo editore italiano di eBook: ha pubblicato 2.845 eBook nel 2013, 6.471 nel 2014 (quando si chiamava ancora Narcissus.me) e circa 15 mila nel 2015. AIE, l’Associazione Italiana Editori, dovrebbe rendere noti i dati in primavera, ma l secondo, intorno ai 5 mila libri, dovrebbe essere YouCanPrint (sempre digitale, a dispetto del nome, e comunque distribuito da Streetlib), il terzo Mondadori con circa 3.500 titoli pubblicati. Le condizioni economiche per auto-pubblicarsi con Streetlib sono semplici e uguali per tutti: all’autore va il 60 per cento del prezzo di ogni libro, il retailer – cioè Amazon, Ibs, Apple, Barnes&Noble, insomma chi vende il libro online – prende il 30 per cento, mentre Streetlib trattiene il 10 per la semplice pubblicazione. I servizi ulteriori – editing, copertina, correzione di bozze – hanno tariffe fisse e una tantum. Il costo dell’eventuale traduzione è concordato direttamente tra traduttore e autore, ma di solito – racconta Antonio Tombolini, fondatore e direttore di Streetlib –  è in linea con quelli pagati dalle case editrici tradizionali. Anche sulle traduzioni Streetlib prende il 10 per cento. «La cosa interessante è che incominciano a muoversi anche le lingue secondarie, non solo l’inglese. La gente decide di farsi tradurre anche in francese, tedesco o spagnolo. E sempre più spesso capita che il traduttore accetti di abbassare la sua tariffa, in cambio della partecipazione dei diritti sulle vendite estere» .

Streetlib lavora in pari misura con autori auto-pubblicati e con case editrici medie e piccole. Nell’ultimo anno, dice Tombolini, le vendite di eBook sono cresciute del 60 per cento, quelle di libri autopubblicati del 90%. «Ormai mi capita di firmare assegni anche di parecchie decine di migliaia di euro. Ci sono autori che scrivono tanti libri, lavorano sulla comunicazione e sulla promozione – cioè che davvero fanno gli editori di se stessi – e che guadagnano bene. Altri autori che hanno pubblicato con grandi editori, per la prima volta decidono di auto-pubblicarsi». Tombolini – che però non fa i nomi degli autori in questione – parla di guadagni del tutto in linea (anzi) con quelli dell’editoria tradizionale: «Nel 2015 l’autore che ha venduto di più con noi ha incassato 56mila euro. Nel 2015 oltre 100 autori hanno guadagnato più di 10mila euro. Nel 2015 l’ebook che ha venduto di più ha venduto 18mila copie».

Più dell’80 per cento dei libri pubblicati e venduti da Streetlib sono di narrativa di genere: thriller, gialli, romanzi rosa. Il prezzo medio di un libro di narrativa è 3 euro (mentre un eBook di un editore tradizionale costa oltre 3 volte di più). In maggioranza chi compra ha tra i 40 e i 55 anni. Probabilmente sono lettori che leggono molto e in serie, ma senza grande attenzione alla qualità letteraria. «Ma forse è una fase», dice Tombolini «sono convinto che i saggi, per esempio, abbiano potenzialità enormi, solo che la tecnologia non è ancora adeguata: Kindle, Kobo, Googleplay, Apple iBook non permettono, per esempio, di gestire bene note o bibliografie. Non esiste nulla di equiparabile all’mp3 per la musica, cioè a un formato standard leggibile su tutti i device. È su questo che i grandi gruppi editoriali dovrebbero spingere». E invece come si stanno muovendo? «Mi sembra alla cieca, come pugili suonati», dice, «la vera arma dei grandi editori era la distribuzione, ora che il digitale gliela sta portando via, non sanno più che cosa fare. Bisogna interpretare il self-publishing non in chiave antagonista o come strada alternativa, ma usarlo per imparare da capo a fare l’editore, un mestiere che – davanti a un’offerta crescente e sempre più indifferenziata – inevitabilmente finirà per diventare ancora più importante».

 

Fonte [ilPost]

Back to Top