LA REPUBBLICA del 30 maggio 2012
È solo un dettaglio. Ma vedere e sentire il redivivo Capezzone sbucare in un tigì per dire che «la vera grande opera è mettere in sicurezza tutto il Paese» desta totale sbalordimento. Neanche rabbia: puro sbalordimento. Ma come? Non era e non è, Capezzone, portavoce del partito di Berlusconi o di quel poco che ne rimane? E quando mai, nei lunghi anni di potere dell´uomo del ponte sullo Stretto, della New Aquila (!?), della cementificazione allegra, la messa in sicurezza di qualcosa è stata una priorità, o anche semplicemente un´urgenza? Non erano forse gli ambientalisti menagramo e nemici dello sviluppo a sostenere che bisognava usare tutti i quattrini a disposizione per aggiustare l´esistente, piuttosto che speculare sull´inesistente? Non erano forse gli intellettuali rompiballe, i geologi squattrinati, i vetero di ogni risma, quelli che remavano contro, a ripetere che è assurdo vaneggiare di grandi opere straordinarie in un Paese che, ordinariamente, si sgretola e cigola in ogni sua giuntura, strutturale e infrastrutturale? E adesso sbuca questo qui, verso l´ora di pranzo, a spiegarci che «la vera grande opera» è aggiustare quello che è rotto? Ma con che faccia? Con che coerenza? Con che curriculum? Con quali parole e quali atti alle spalle, che lo autorizzino a qualcosa di diverso da un doveroso silenzio?
LA REPUBBLICA del 5 aprile 2012
C’è una sola cosa che mette più tristezza di un calciatore che si vende una partita. Sono i tifosi ultras che scommettono contro la propria squadra, come è accaduto a Bari, e minacciano i giocatori di “andarli a prendere a casa” se non rispettano le consegne. Gente che almeno una volta nella vita avrà vergato su qualche cartello le sguaiate, patetiche professioni di fede delle curve, e poi la fede se la gioca nella prima bisca che gli capita a tiro. È proprio vero che i fanatici sono sempre i primi a tradire. Le passioni gonfiate, le estasi drogate sono le meno verosimili, gas che esplode ma non lascia sostanza, neppure cenere. È come in politica: per un estremista che si immola, cieco di passione, ce ne sono cento che voltano gabbana non appena si stufano di quel giochino, e ne vogliono un altro. È da tempo immemorabile che il calcio italiano vive nel terrore che gli ultras “lo vadano a prendere a casa”. Giocatori minacciati, inseguiti, pestati, irruzioni sui campi di allenamento con la tracotanza di una cosca che comanda e decide, autogrill devastati, coltellate omicide, bombe carta, spalti devastati. Ora la novità di un pezzo di curva che si vende il tifo per un tozzo di scommessa. I calciatori vengono sospesi e radiati. Ma i tifosi?
LA REPUBBLICA del 15 aprile 2012
"Facciamo il possibile per combattere il razzismo ma anche i media devono darci una mano", dice il direttore sportivo della Juventus Marotta. Eccoci qua, pronti a dare una mano e addirittura un suggerimento. Quasi ogni stadio italiano ha, in curva, il suo nazi-point. Quello in dotazione alla Juve ha accumulato, quest’anno, il record di multe per cori razzisti, e il cumulo è tale da rasentare la squalifica del campo. Nessuno meglio dei dirigenti della Juve è in grado di sapere chi sono i farabutti che insozzano quel magnifico stadio. Più in generale: nessuno meglio dei dirigenti del calcio italiano conosce nome, cognome e indirizzo dei capi tribù che tengono in ostaggio gli stadi, gli autogrill, le domeniche di noi tutti. Ecco dunque il suggerimento: la società Juventus, che dalla piaga del razzismo è danneggiata moralmente ed economicamente, faccia pressione sulle altre società professionistiche per una denuncia congiunta, forte, energica, ufficiale, molto pubblicizzata, di quei mascalzoni. È pericoloso? Sì, probabilmente lo è. Ma è certamente più pericoloso, in Sicilia o a Napoli o in Calabria, ribellarsi al pizzo. Eppure c’è chi lo fa. Gli ultras sono forse più potenti della mafia? E nello specifico, la Fiat è disposta a farsi tenere in pugno da quattro nazistelli?
LA REPUBBLICA del 31 maggio 2012
Memorabile lo speciale di Bruno Vespa sul terremoto, l´altra sera. L´ho seguito per un paio d´ore, al tempo stesso ammirato e atterrito
dall´eccitazione quasi folle che la catastrofe aveva innescato nell´uomo e nel professionista. Parlando a mitraglia, con lo sguardo acceso, a volte mulinando una bacchetta per indicare mappe, coordinare inviati, ammonire geologi, Vespa ha in pratica gestito da solo i soccorsi. Punto alto della serata, il severo monito da lui rivolto a una terremotata affinché raggiungesse immediatamente, non si sa perché, un albergo di Reggio Emilia. La signora, costernata, non ne aveva alcuna voglia, ma le è mancato l´animo di dirlo, forse perché le dispiaceva deludere Vespa. Niente poteva sfuggirgli: discrepanze nelle carte telluriche, disponibilità di camere d´albergo nel raggio di centinaia di chilometri dall´epicentro, imprecisioni di sindaci e assessori sul numero esatto delle brande, delle cucine da campo, dei picchetti per le tende. Gli ospiti hanno potuto parlare pochissimo, anche perché dopo poche sillabe Vespa toglieva loro la parola per dire meglio di loro quanto avrebbero voluto dire. Sono rimasti per ore, muti e attoniti, seduti ai loro posti, chiedendosi anche loro perché era così urgente che almeno alcuni dei senzatetto raggiungessero immediatamente Reggio Emilia. Ma non hanno osato chiederlo.
dall´eccitazione quasi folle che la catastrofe aveva innescato nell´uomo e nel professionista. Parlando a mitraglia, con lo sguardo acceso, a volte mulinando una bacchetta per indicare mappe, coordinare inviati, ammonire geologi, Vespa ha in pratica gestito da solo i soccorsi. Punto alto della serata, il severo monito da lui rivolto a una terremotata affinché raggiungesse immediatamente, non si sa perché, un albergo di Reggio Emilia. La signora, costernata, non ne aveva alcuna voglia, ma le è mancato l´animo di dirlo, forse perché le dispiaceva deludere Vespa. Niente poteva sfuggirgli: discrepanze nelle carte telluriche, disponibilità di camere d´albergo nel raggio di centinaia di chilometri dall´epicentro, imprecisioni di sindaci e assessori sul numero esatto delle brande, delle cucine da campo, dei picchetti per le tende. Gli ospiti hanno potuto parlare pochissimo, anche perché dopo poche sillabe Vespa toglieva loro la parola per dire meglio di loro quanto avrebbero voluto dire. Sono rimasti per ore, muti e attoniti, seduti ai loro posti, chiedendosi anche loro perché era così urgente che almeno alcuni dei senzatetto raggiungessero immediatamente Reggio Emilia. Ma non hanno osato chiederlo.
LA REPUBBLICA del 6 aprile 2012
Tra le varie incredibili cose che si leggono sulla Lega, la più incredibile è che l’ultimo congresso federale di quel partito è del 2002. Dieci anni fa! Un partito che non affida le proprie sorti ai congressi, cioè al dibattito e alla verifica politica tra dirigenti e delegati, non è un partito democratico. Può anche essere un partito “di popolo”. Ma se il capo e il suo entourage esercitano il potere, per molti anni, in totale autonomia, senza doverne rendere conto a nessuno, la democrazia è solo un remoto fantasma. Nella discussione sulla riforma (urgentissima) dei partiti, non basta parlare solo del loro finanziamento. Bisogna parlare anche del loro funzionamento. La comunità nazionale non ha alcun interesse a dare quattrini a partiti che non garantiscano democrazia interna e (dunque) trasparenza. La scadenza dei congressi dovrebbe essere stabilita per legge, così come accade per le assemblee degli azionisti e per i Consigli di amministrazione. Dove girano soldi, specialmente soldi pubblici, devono esserci regole chiare. I porci comodi dei Bossi e dei loro amici sarebbero stati meno comodi se la Lega avesse funzionato come un partito democratico e non come una consorteria di avventurieri.
LA REPUBBLICA del 17 febbraio 2012
Nella baraonda sanremese ogni parola affoga, quella televisiva e quella della post-produzione giornalistica, che della tivù è pateticamente gregaria. Salverei, potendo, alcune delle (troppe) parole pronunciate da un uomo anziano (e non rifatto), che ha denunciato l´assurda brevità della vita, indicando come unica consolazione il Paradiso e la compagnia degli angeli. Saranno cinquant´anni, con l´eccezione di un paio di letture dantesche, che nessuno parlava di vita eterna in prima serata. Di tutto si è sempre cianciato, soprattutto di poderose stronzate, avendo competenze anche inferiori di quelle di Adriano Celentano: ma senza sollevare altrettanto scandalo. Curioso che la Chiesa – suoi uomini o sue propaggini – non abbia colto la novità. Vero è che ogni clero teme, più di Satana, chi predica senza avere la patente, violando il contratto di concessione esclusiva che le gerarchie religiose vantano con l´Eterno. E a proposito (e ovviamente senza nesso alcuno con Celentano): oggi, 17 febbraio, è l´anniversario del rogo di Giordano Bruno. Un amico di penna mi chiede di celebrarlo con le parole di Shakespeare: "Eretico è chi appicca il fuoco, non chi vi brucia dentro" (Winter´s Tale, atto II, scena III).
LA REPUBBLICA del 15 marzo 2012
Sì, la ministra Fornero poteva evitare di dare in pasto ai cronisti la parola "paccata" (e più in generale: i professoroni al governo dovrebbero mantenere un aplomb più professorale). Ma che dire di una comunità mediatica che su quella parola costruisce la descrizione di una trattativa, quella sul lavoro, che dura da settimane, e attorno a frasette del genere disfa e ricuce la trama di un rapporto (quello tra governo, sindacati e Confindustria) che è complicato da capire perfino per i protagonisti? Che dire di un giornalismo per il quale ogni dissidio diventa "rissa", ogni inciampo diventa "rottura", e per speziare il suo minestrone quotidiano abusa di "proposte shock", "dichiarazioni shock", "notizie shock", come se l´opinione pubblica fosse sordastra e solo l´urlaccio nelle orecchie potesse attirare la sua attenzione? A che servono, poi, le pazienti ricostruzioni, le schede tecniche, le inchieste che sviscerano e spiegano, se la confezione è quasi sempre un titolaccio "shock", se i titoli dei telegiornali (che danno il là all´intero coro mediatico, anche quello di carta) si fabbricano con i cocci di frase raccattati nei corridoi? Sono i media grossolani a costruire un pubblico superficiale. L´alibi, poi, è accusare il pubblico di essere superficiale.
LA REPUBBLICA del 18 febbraio 2012
Il ventennale di Mani Pulite è stato celebrato meno istericamente del previsto (il clima sobrio e leggermente soporifero di questa parentesi "tecnica" serve, almeno, a mitigare i bollori politici). Ma è stato celebrato, quasi da tutti, come una sconfitta. Specie alla luce dei recenti e desolati calcoli sulla corruzione, che gode di eccellente salute. Ci si illuse, allora, che un manipolo di giudici valorosi avrebbe rimesso in riga un Paese che era, quanto a illegalità, perfettamente speculare alla sua classe dirigente. Le fiaccolate e il mito della "società civile" fecero corona a quell´appassionante colpo di reni della legge, e tutti facemmo finta che due evidenti minoranze (quei giudici, preceduti da decenni di insabbiamenti e omissioni; e la "società civile") incarnassero un´irresistibile volontà popolare. Così non è stato, e l´innamoramento di mezza Italia per Berlusconi segnò anche il bisogno irresistibile di abbandonare la plumbea severità della legge per tornare alla pacchia generalizzata e all´autoassoluzione di un Paese che di sentirsi in colpa non aveva alcuna voglia. Questi vent´anni sono dunque serviti almeno a capire che se non cambiano gli italiani, grazie a un profondo travaglio culturale e politico, nessuna legge sarà in grado, da sé sola, di cambiare alcunché.
LA REPUBBLICA dle 19 febbraio 2012
Nel clima certo non favorevole ai partiti, stupisce che si sia parlato così poco, e in modo piuttosto frammentario, di uno scandalo che a me pare gigantesco, e davvero gravissimo in termini di credibilità della politica. Mi riferisco al finto tesseramento al Pdl, con migliaia, forse decine di migliaia di iscritti "a loro insaputa" (tra i quali, per garantire anche il lato comico, anche morti e comunisti…), compreso, per fare prima e non faticare troppo a stilare liste, l´elenco completo di un´associazione di cacciatori del Veneto. Pare che la causa scatenante di questo mercato fraudolento sia il controllo, regione per regione, del partito, che almeno sulla carta dovrebbe funzionare, di qui in poi, attraverso regolari congressi, proprio come se fosse un partito vero, e non più per acclamazione del suo fondatore, finanziatore e proprietario. La cosa triste, e politicamente micidiale, è che sarebbe dunque proprio l´abbandono del sistema ducesco-acclamatorio, e il transito alla democrazia, ad avere scatenato questa schifosa frode. Tanto per assestare un colpo in più – come se ce ne fosse bisogno – al sistema dei partiti. E dare qualche argomento in più a chi, della democrazia, proprio non sentiva l´esigenza, e gli bastava l´ovazione al Capo per sentirsi un militante modello.
LA REPUBBLICA del 3 marzo 2012
Il Quotidiano di Calabria chiede di dedicare il prossimo otto marzo a Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce. Sono tre donne nate in famiglie di ‘ndrangheta che si sono ribellate al loro destino. Il patriarcato assassino che regge le sorti di quello sventurato pezzo di Italia ha ucciso la prima (Lea) e ha costretto al suicidio la seconda (Maria Concetta). Giuseppina è riuscita a fuggire ed è testimone di giustizia, a nome suo e di tutte le persone libere. Al Quotidiano arrivano migliaia di adesioni. Aggiungo anche la mia. Chi ritiene l´otto marzo una ricorrenza inutile, fuori tempo massimo, rifletta sulla condizione di assoggettamento e umiliazione che ha spinto Lea, Maria Concetta, Giuseppina al martirio e alla fuga. "Famiglia", nel meridione d´Italia, è spesso parola di spietata ambiguità. Rimanda alle mafie, ai vincoli ferrei e spesso mostruosi che fanno di ogni individuo non una persona, ma il membro di un branco; e fanno delle donne le custodi mute e sottomesse di quella catena di sangue, avidità e oppressione. Se a disobbedire è una donna, l´intera catena rischia di spezzarsi. Alle donne, nella maggior parte di questo pianeta, si adatta perfettamente ciò che Marx disse dei proletari: non hanno da perdere che le loro catene.