LA REPUBBLICA del 15 marzo 2012
Sì, la ministra Fornero poteva evitare di dare in pasto ai cronisti la parola "paccata" (e più in generale: i professoroni al governo dovrebbero mantenere un aplomb più professorale). Ma che dire di una comunità mediatica che su quella parola costruisce la descrizione di una trattativa, quella sul lavoro, che dura da settimane, e attorno a frasette del genere disfa e ricuce la trama di un rapporto (quello tra governo, sindacati e Confindustria) che è complicato da capire perfino per i protagonisti? Che dire di un giornalismo per il quale ogni dissidio diventa "rissa", ogni inciampo diventa "rottura", e per speziare il suo minestrone quotidiano abusa di "proposte shock", "dichiarazioni shock", "notizie shock", come se l´opinione pubblica fosse sordastra e solo l´urlaccio nelle orecchie potesse attirare la sua attenzione? A che servono, poi, le pazienti ricostruzioni, le schede tecniche, le inchieste che sviscerano e spiegano, se la confezione è quasi sempre un titolaccio "shock", se i titoli dei telegiornali (che danno il là all´intero coro mediatico, anche quello di carta) si fabbricano con i cocci di frase raccattati nei corridoi? Sono i media grossolani a costruire un pubblico superficiale. L´alibi, poi, è accusare il pubblico di essere superficiale.
LA REPUBBLICA del 18 febbraio 2012
Il ventennale di Mani Pulite è stato celebrato meno istericamente del previsto (il clima sobrio e leggermente soporifero di questa parentesi "tecnica" serve, almeno, a mitigare i bollori politici). Ma è stato celebrato, quasi da tutti, come una sconfitta. Specie alla luce dei recenti e desolati calcoli sulla corruzione, che gode di eccellente salute. Ci si illuse, allora, che un manipolo di giudici valorosi avrebbe rimesso in riga un Paese che era, quanto a illegalità, perfettamente speculare alla sua classe dirigente. Le fiaccolate e il mito della "società civile" fecero corona a quell´appassionante colpo di reni della legge, e tutti facemmo finta che due evidenti minoranze (quei giudici, preceduti da decenni di insabbiamenti e omissioni; e la "società civile") incarnassero un´irresistibile volontà popolare. Così non è stato, e l´innamoramento di mezza Italia per Berlusconi segnò anche il bisogno irresistibile di abbandonare la plumbea severità della legge per tornare alla pacchia generalizzata e all´autoassoluzione di un Paese che di sentirsi in colpa non aveva alcuna voglia. Questi vent´anni sono dunque serviti almeno a capire che se non cambiano gli italiani, grazie a un profondo travaglio culturale e politico, nessuna legge sarà in grado, da sé sola, di cambiare alcunché.
LA REPUBBLICA dle 19 febbraio 2012
Nel clima certo non favorevole ai partiti, stupisce che si sia parlato così poco, e in modo piuttosto frammentario, di uno scandalo che a me pare gigantesco, e davvero gravissimo in termini di credibilità della politica. Mi riferisco al finto tesseramento al Pdl, con migliaia, forse decine di migliaia di iscritti "a loro insaputa" (tra i quali, per garantire anche il lato comico, anche morti e comunisti…), compreso, per fare prima e non faticare troppo a stilare liste, l´elenco completo di un´associazione di cacciatori del Veneto. Pare che la causa scatenante di questo mercato fraudolento sia il controllo, regione per regione, del partito, che almeno sulla carta dovrebbe funzionare, di qui in poi, attraverso regolari congressi, proprio come se fosse un partito vero, e non più per acclamazione del suo fondatore, finanziatore e proprietario. La cosa triste, e politicamente micidiale, è che sarebbe dunque proprio l´abbandono del sistema ducesco-acclamatorio, e il transito alla democrazia, ad avere scatenato questa schifosa frode. Tanto per assestare un colpo in più – come se ce ne fosse bisogno – al sistema dei partiti. E dare qualche argomento in più a chi, della democrazia, proprio non sentiva l´esigenza, e gli bastava l´ovazione al Capo per sentirsi un militante modello.
LA REPUBBLICA del 3 marzo 2012
Il Quotidiano di Calabria chiede di dedicare il prossimo otto marzo a Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce. Sono tre donne nate in famiglie di ‘ndrangheta che si sono ribellate al loro destino. Il patriarcato assassino che regge le sorti di quello sventurato pezzo di Italia ha ucciso la prima (Lea) e ha costretto al suicidio la seconda (Maria Concetta). Giuseppina è riuscita a fuggire ed è testimone di giustizia, a nome suo e di tutte le persone libere. Al Quotidiano arrivano migliaia di adesioni. Aggiungo anche la mia. Chi ritiene l´otto marzo una ricorrenza inutile, fuori tempo massimo, rifletta sulla condizione di assoggettamento e umiliazione che ha spinto Lea, Maria Concetta, Giuseppina al martirio e alla fuga. "Famiglia", nel meridione d´Italia, è spesso parola di spietata ambiguità. Rimanda alle mafie, ai vincoli ferrei e spesso mostruosi che fanno di ogni individuo non una persona, ma il membro di un branco; e fanno delle donne le custodi mute e sottomesse di quella catena di sangue, avidità e oppressione. Se a disobbedire è una donna, l´intera catena rischia di spezzarsi. Alle donne, nella maggior parte di questo pianeta, si adatta perfettamente ciò che Marx disse dei proletari: non hanno da perdere che le loro catene.
LA REPUBBLICA del 6 marzo 2012
Fa male sentire che qualche tigì chiama ancora "delitto passionale" mattanze come quelle di Brescia, dove un maschio reso feroce dalla sua demenza, o reso demente dalla sua ferocia, uccide una donna che considera "sua" e non lo vuole più. E come contorno della sua orribile esecuzione ammazza altre tre persone (due delle quali ventenni) che avevano per sola colpa essere prossimi alla vittima: amico, figlia, fidanzato della figlia. Perché gratificare di "passione" questo nazismo maschile che ogni anno produce, solo qui in Italia, un vero e proprio olocausto di femmine soppresse solo perché non vogliono più appartenere (come bestie, come cose) a un padrone, e per giunta un padrone violento? "O mia o di nessuno", dice il boia di turno, ed è la perfetta sintesi di una cultura arcaica e mostruosa che – esattamente come il movente razziale – dovrebbe costituire un´aggravante, in un paese civile. Mentre l´aggettivo "passionale" rimanda, purtroppo, a una sorta di attenuante, quasi di "spiegazione": e fino a una generazione fa, qui in Italia, era di fatto un´attenuante giuridica. Levato dai codici quell´infame eufemismo che erano le "ragioni di onore", rendiamo onesto, veridico anche il linguaggio giornalistico. Passione e amore non c´entrano, c´entrano il potere, il terrore di perderlo, l´odio della libertà.
LA REPUBBLICA del 31 dicembre 2011
Per diventare dittatori bisogna essere, prima di tutto, dei mentitori patentati. Umberto Bossi è, in questo senso, un talento sprecato, perché pur essendo un incallito mentitore non ha la possibilità oggettiva di diventare dittatore, se non acquistando un atollo sperduto e ribattezzandolo Padania per trasferircisi, come un reverendo americano matto, con i suoi fedeli. L´ultima balla – pronunciata ieri di fronte alla solita claque di partito – è un perfetto esempio di ribaltamento della verità. Bossi accusa Napolitano di avere "riempito il Nord Italia di tricolori, che alla gente del Nord non piacciono". È vero esattamente il contrario: è la gente del Nord che ha riempito le proprie città e le proprie case di tricolori, che a Bossi non piacciono. E lo ha fatto, per giunta, proprio perché a Bossi non piacciono, per spiegargli in modo definitivo, e politicamente ultimativo, che la Lega, al Nord, è solo una minoranza invadente e rumorosa. Non fosse stato per Bossi e per la Lega, il Centocinquantenario non sarebbe mai stato il trionfo popolare che è stato. L´anno che si conclude oggi lo annovera, in questo senso, tra i grandi artefici involontari della storia italiana.
LA REPUBBLICA del 21 gennaio 2012
I tassisti hanno qualche buona ragione (una licenza pagata a caro prezzo), ma toni e modi della loro lotta sono molto controproducenti, specialmente agli occhi di chi ha memoria di altre lotte, e di ben altra compostezza. Non si tratta di fare l´elogio del Quarto Stato, di quell´incedere severo e compatto che discendeva dall´idea che il passo dei contadini e degli operai coincidesse con il passo della Storia. Sono cose passate, e quel magnifico e imponente corteo, per altro, è stato sconfitto e disperso. Si tratta, però, di giudicare un linguaggio, una cultura, una visione dello stare in società che paiono mutuati pari pari dalle curve di stadio, come se a competere sulla scena sociale non fossero più le classi, ma tribù ingaglioffite dall´astio e dalla paura. La fatica di chi lavora in mezzo al traffico per molte ore va rispettata, e non deve accadere che intere vite lavorative rischino la rottamazione. Ma se una lotta sindacale viene vissuta come un regolamento di conti da risolvere a urla e mazzate, diventa automaticamente impopolare. I tassisti con la testa sulle spalle spieghino ai loro colleghi ultras che in questi giorni noi clienti appiedati siamo molto contenti di prendere il tram.
LA REPUBBLICA del 3 gennaio 2012
Perché i "conflitti sociali" evocati da Susanna Camusso siano una concreta possibilità, non è cosa che richieda di essere spiegata. Solo uno sciocco può non capire che laddove le disuguaglianze aumentano, aumenta la tensione sociale. Quello che impressiona, piuttosto, è la grande difficoltà di immaginare – da parte di tutti – quali forme questi "conflitti sociali" possano assumere, quale volto possano avere. Al di là dei fuochi fatui dell´estremismo di piazza (che è la più vecchia e dunque la più inutile delle forme di antagonismo), è da molti anni che la voce degli ultimi non trova la maniera di farsi ascoltare. I sindacati faticano a drenare gli umori e le esigenze dei non rappresentati, dei precari e dei ragazzi senza lavoro. La fabbrica, da tempo, non è più il teatro che possa mettere in scena in modo rappresentativo e solenne l´incontro-scontro tra capitale e lavoro. La sinistra, che è il vettore storico (bisecolare) della protesta sociale, è semiparalizzata dal carico di responsabilità (anche istituzionali) che la crisi finanziaria le scarica sulle spalle. Siamo, in un certo senso, all´anno zero del conflitto sociale "new age". Largo spazio a chi inventerà qualcosa di nuovo: forme organizzative, parole, azione politica.
LA REPUBBLICA del 24 gennaio 2012
In un dibattito televisivo il rappresentante dei farmacisti italiani – un signore anziano e combattivo – non ha saputo o voluto dire quanto rende, in media, una farmacia in una grande città. Ha saputo e voluto dire tutto il resto: quali problemi, quali rinunce, quali ingiustizie la categoria rischia di patire con la (parziale) liberalizzazione del settore. E ha anzi molto insistito con il conduttore affinché si parlasse di cifre e di aspetti concreti. Ma uno dei dati decisivi per formarsi un´opinione sulla questione – quanto guadagna una farmacia bene avviata – è stato platealmente omesso. È francamente incomprensibile la reticenza degli italiani riguardo ai quattrini: sono diventati, per come va il mondo, il segno dei segni, la regola delle regole, eppure quando si tratta di dire quanto si guadagna il discorso si fa pudico e omertoso, come se si stesse parlando di sesso. Questo rende molto più complicato, e forse insolubile, il discorso sulle cose economiche, perché il nocciolo se ne resta nascosto dentro una densa polpa fatta solo di lamentele e autocommiserazione, come se ogni categoria professionale fosse in ginocchio, bistrattata, discriminata. Guadagnare bene non è una colpa, e anzi, se si pagano le tasse, è un merito e un vantaggio per tutta la comunità. Quando lo avremo capito saremo un paese meno infantile e meno querimonioso.
LA REPUBBLICA del 11 gennaio 2012
Le dimissioni di Malinconico erano un atto dovuto, e urgevano per preservare il buon nome di un governo che vanta discontinuità e dunque deve dimostrarla ogni giorno. Ma non basteranno a spegnere l´incendio anti-casta, che divampa senza più distinguere gli alberi tarlati da bruciare, e quelli sani da rispettare. Non solo le vacanze pagate dalle varie cricche, anche quelle pagate di tasca propria ormai valgono come capo d´imputazione per chi fa politica. L´altra sera alla radio una signora invelenita rinfacciava a Rutelli il Natale alle Maldive (frequentate da centinaia di migliaia di italiani) accusandolo "di non avere mai lavorato". Non sono un fan di Rutelli, ma in quell´accusa stridula e assurda risuonavano i peggiori umori (da forca) di una fetta ahimè larga di opinione pubblica, che ha il sangue agli occhi e ha stabilito che è "la politica", in sé, il capro espiatorio di tutte le nostre tare. E il clima è tale che il conduttore, di solito perspicace, non ha avuto l´ovvia accortezza di replicare alla signora che la politica, quando è fatta con coscienza, è un lavoro eccome. E non dei più facili. Latrare contro "i politici", presi in un solo mazzo come lestofanti e scrocconi, è un´idiozia come tutte le fole che fanno le veci della realtà. E, quel che è peggio, prepara il campo al primo dittatore o demagogo in grado di fare propri quegli umori da servi maldicenti.