LA REPUBBLICA del 2 luglio 2011
Non so se per malizia o per caso, ieri questo giornale riportava nella stessa pagina le accuse di Bossi ai napoletani per il disastro dei rifiuti, e la sentenza della Corte d´Appello di Torino che ha condannato per associazione a delinquere i Cobas del latte del Piemonte e l´europarlamentare leghista Giovanni Robusti. Duecento milioni di euro nascosti all´erario attraverso finte vendite di latte a cooperative fittizie, per aggirare le famose multe dell´Ue sullo sforamento delle quote latte. L´intera vicenda delle quote latte (che prende abbrivio, molti anni fa, da dichiarazioni false degli allevatori per pagare meno tasse) è un desolante spaccato socio-economico del Nord Italia. Espedienti e furbate (ai danni degli allevatori onesti), illegalità e corporativismo, e la Lega a reggere il gioco per specularci sopra in termini di voti, di polemica anti-europea e anti-statale, di generica propaganda anti-fiscale. Come direbbe Bossi, una cosa da napoletani, con tanto di "onorevole" che offre aiuto e protezione, però fiorita all´ombra del Monviso e delle verdi valle alpine. Piuttosto che latrare all´indirizzo dei "terroni", il senatore Bossi farebbe meglio a guardare fuori dalla propria finestra. Perché se i voti non puzzano, le condanne per frode sono un brutto affare a qualunque latitudine. Dello scandalo politico delle quote-latte si è parlato molto poco solo perché dell´agricoltura, in questo Paese, non importa niente a nessuno.
LA REPUBBLICA del 17 giugno 2011
Cerco di immaginare la vita di questo signor Luigi Bisignani, le mosse, le contromosse, gli abboccamenti, gli incontri, le raccomandazioni, i calcoli a breve medio e lungo periodo, i dossier da tenere curati come le ortensie, una rubrica del telefono grossa come la Treccani, l´agenda personale senza mezza giornata vuota, una rete di conoscenze infinita e guai a rispondere picche a un amico confondendolo con un nemico e viceversa, le trame e l´ordito, gli azzardi e gli errori, le false piste (tempo perso!) e quelle giuste, le vecchie manfrine lasciate a mezza via a causa delle nuove manfrine intraprese e l´ansia di trovare il tempo per non trascurare qualcosa o qualcuno, e presumibilmente il tutto essendo sempre in ordine, lavato, stirato, vestito bene, con l´alito leggero e il sorriso in resta. Potere e denaro, e va bene. Ma la libertà? Che vita devono fare, questi moltiplicatori di occasioni, questi servi della fortuna? Di tutti i vizi, quello della libertà è davvero il più raro. Scriveva Orazio in una delle sue epistole a un Bisignani della sua epoca: ma quand´è che molli Roma e i tuoi trafelati uffici, e tutti quegli isterici e isteriche (oggi si direbbe: stressati e stressate) che ogni minuto ti chiedono qualcosa, e mi raggiungi in campagna a bere il vino nuovo, e far nulla in mia compagnia? Già: quando è che?
LA REPUBBLICA del 19 luglio 2011
Nel potente articolo di Carl Bernstein (Repubblica di domenica) sullo scandalo che sta travolgendo l´impero di Rupert Murdoch, impressionava l´estrema durezza con la quale il grande giornalista, coautore dello scoop sul Watergate, giudica la stampa popolare anglosassone, quella incentrata sul gossip. Il "segreto" del successo di Murdoch, per Bernstein, è uno solo: l´abbassamento vertiginoso della qualità giornalistica, fino a sostituire alla "faticosa ricerca della verità" quella parodia della realtà che è il gossip. Nel nostro piccolo, anche in Italia abbiamo sperimentato questa progressiva sostituzione della realtà con un suo scadente surrogato, edulcorato e sciocco. Ma il problema è mondiale: la società di massa ha creato un nesso forte e chiaro tra la cattiva qualità e il successo commerciale. Accade per i cibi, per il giornalismo, per la politica, per il turismo, per tutto. Non so quanto sia fondata l´idea (classista) che la qualità sia destinata solo a un pubblico di nicchia, e il "popolo" sia per definizione, direi per destino, di bocca buona. Ma so che, nell´attesa di capire quanto solido e duraturo sia l´impero della mediocrità, l´autostima di ciascuno è la sola bussola che conti, anche per i giornalisti. Forse non si può scegliere se diventare Bernstein o occuparsi delle gravidanze delle attrici. Ma si può scegliere, almeno, di provarci.
LA REPUBBLICA del 7 luglio 2011
Ci saranno anche utili scrupoli e pensose alternative, dietro la decisione del Pd di astenersi sull´abolizione delle Province proposta da Di Pietro. Ma l´effetto sull´opinione pubblica – devastante – è quello di un voto di potere, che assimila l´astensione del Pd alla posizione di Pdl e Lega, che le Provincie se le tengono strette. Non può essere un caso che i tre maggiori partiti italiani, cioè quelli con il personale politico più numeroso, si siano messi di traverso, e dopo anni (decenni) che si discute di snellire l´enorme apparato buro-politico e ridurne i costi, abbiano ottenuto l´ennesimo rinvio. Come non pensare che il sistema dei partiti anteponga i suoi problemi interni (di personale, di posti di lavoro, di fette di potere da gestire) alle esigenze del Paese? E come non pensare che questo meccanismo auto-riferito, e quasi autistico, sia così devastante da spingere il principale partito di opposizione – in un momento come questo, poi – a confondersi con interessi di casta, a irritare molti dei suoi elettori, ad alzare un mattone in più nel maledetto muro che separa gli eletti dagli elettori? Un partito non è un´azienda, si dice da anni a sinistra per segnare le distanze dal berlusconismo. Ma se poi, quando si vota e si decide sugli assetti della politica e sulla vita amministrativa, un partito vota come se fosse un´azienda che difende i propri interessi, la differenza diventa molto meno percepibile.
LA REPUBBLICA del 18 giugno 2011
"Il linguaggio è importante", scrive Pierluigi Battista sul Corriere biasimando le sgarberie e la rozzezza verbale di alcuni (molti) dei governanti. Già. Ma il linguaggio era importante anche "prima". Quando la destra vinceva. Quando non al nervosismo o allo choc della sconfitta, ma alla sicumera del potere si potevano attribuire l´aggressività e le insolenze (Bossi che mostra il dito medio, Bossi che fa il gesto dell´ombrello, Calderoli che vuole portare i porci a pascolare davanti alle moschee, Berlusconi che dà del coglione a chi non lo vota: la lista è interminabile). Non è agli sconfitti, è soprattutto ai vincitori che urge rinfacciare la bassa qualità dei comportamenti e delle parole. La vittoria non è un lasciapassare, semmai è un ulteriore carico di responsabilità. A Vendola, giustamente, è stata rimproverata una smagliatura ("abbiamo espugnato Milano") uscitagli di bocca proprio nel momento del trionfo. Ci si chiede – e non è una polemica – se la notte sarebbe stata meno lunga, la caduta di stile meno implacabile, se ciò che appariva protervo e insopportabile, nel potere berlusconiano e bossiano, lo fosse stato per chiunque aveva occhi per vedere e orecchie per sentire. Noi moralisti di Repubblica saremmo stati molto felici di dividere con qualcun altro la fatica e la noia (soprattutto la noia) di ripetere per quasi vent´anni le stesse cose.
LA REPUBBLICA del 8 luglio 2011
Seguo con parecchia amarezza l´affastellarsi di "rivelazioni" sulla Rai controllata e manipolata dagli uomini di Berlusconi (cioè, in un colpo solo, dal governo e dalla concorrenza). L´amarezza è dovuta alla totale inutilità di quanto, negli anni, è stato detto e scritto in proposito. Valanghe di articoli, documenti sindacali, vertenze interne rendevano esplicito uno scandalo che, prima che nei comportamenti, era nelle cose. Lo scandalo era (è) il conflitto di interessi, la cui conseguenza tecnicamente e politicamente più macroscopica era che la televisione pubblica italiana fosse gestita dai suoi diretti concorrenti: una follia in termini di mercato oltre che in termini di libera informazione. Francamente, non è molto interessante sapere che cosa dicesse nelle sue telefonate la signora Deborah Bergamini, ex segretaria di Berlusconi sistemata sul ponte di comando della Rai non certo per fare il bene di viale Mazzini. Molto più interessante sarebbe capire come questa vera e propria alienazione di un bene pubblico sia stata accettata, sopportata, subita (trovate voi il termine giusto) dal sistema politico italiano, dai cosiddetti organi di controllo, dall´etica pubblica di un Paese che ha considerato normale, per quasi vent´anni, quel gigantesco sgarro alla libertà e al mercato che è stato (che è ancora) il conflitto di interessi. Mediaset comandava in Rai: ce ne accorgiamo adesso?
LA REPUBBLICA del 19 giugno 2011
Con tutto il rispetto per la Lega, che è un influente partito locale e una componente importante del governo nazionale, questa attesa spasmodica di Pontida, e di quello che dirà il Bossi sul fatidico pratone, è abbastanza buffa. Nessuna agenda politica seria può essere dettata da un comizio, per quanto solenne, e che un governo cada o non cada per qualche frase benevola o malevola, per qualche tono ringhioso o conciliante, è piuttosto surreale. Se i partiti ricominciassero a funzionare da ricettori sociali, e non da consorterie che confabulano tra loro, i destini di questo governo (e di qualunque altro governo) sarebbero segnati da tempo: dalla doppia catastrofe elettorale, dal dramma del lavoro salariato che annaspa, dai pessimi conti pubblici, da una riforma fiscale promessa dal premier cento anni fa, mai fatta e adesso abborracciata in tre minuti (a parole) per fare finta che tutto sia arrangiabile. Rispetto a tutto questo – cioè rispetto alla realtà sociale – francamente quello che dirà Bossi può essere al massimo un regolamento di conti tra colleghi, o un chiassoso titolone di giornale, poco di più. Se poi dovesse dire niente di sostanzioso, il lungo computo del tempo perso sarà aumentato di un paio di settimane, trascorse ad aspettare Pontida. Che tra l´altro non è neanche Parigi. Per dire.
LA REPUBBLICA del 12 luglio 2011
In margine alla vicenda del Lodo Mondadori, ci sarebbe da ragionare su un´enormità. Talmente enorme che se ne parla poco e si fa finta di dimenticarsene, anche perché non si può vivere sempre nell´angoscia più nera (un quid di rimozione, in Italia, è indispensabile per la sopravvivenza). L´enormità è questa: che secondo le carte giudiziarie il capo del governo di questo Paese si sarebbe giovato, per costruire le sue fortune, della corruzione di un giudice. Reato più devastante, per un uomo che rappresenta le istituzioni, quasi non è concepibile. Sono le classiche e ricorrenti situazioni nelle quali ci si chiede "in quale altro Paese mai potrebbe accadere", eccetera eccetera. Pure, nella puntuta difesa che il suo esercito di avvocati e i suoi familiari, e co-intestatari dei beni, fanno di Berlusconi, lo scrupolo di negare un´accusa così infamante non appare certo al primo posto. Si fa cenno alla salute dell´azienda, alla tutela dei posti di lavoro, si mette in discussione la cifra in ballo. Quasi si sorvola su ciò che ha originato tutto, e ha portato al colossale risarcimento di un altrettanto colossale danno: la corruzione, comprovata e già giudicata, del giudice Metta da parte di Cesare Previti per favorire la Fininvest. L´idea che chi ci governa e ci rappresenta nel mondo sia un corruttore di giudici è effettivamente troppo deprimente, e vergognosa, perché se ne possa prendere atto fino in fondo. Meglio dormire. Andare al mare. Dimenticare.
LA REPUBBLICA del 21 giugno 2011
Luigi de Magistris, eletto sindaco di Napoli a furor di popolo, e con grave smacco dei vecchi potentati di destra e di sinistra, si è tolto subito il peso del primo errore e ha imparato, di conseguenza, la prima lezione: mai promettere soluzioni rapide e miracolose, perché le piaghe vecchie di molti anni non si rimarginano per acclamazione. La realtà è un osso duro, e si incarognisce soprattutto con chi si illude di ignorarla. Le cordigliere di monnezza che ancora circondano Napoli sono il portato di un tenace, stratificato mix di errori politici, truffe e speculazioni, deficit di cultura civica. Meglio sarebbe stato (anche per distinguersi dal vecchio andazzo) dire «ce la metteremo tutta, ma non sono in grado di promettervi un D-day miracoloso, siamo nella merda fino al collo e per liberarcene davvero ci vorrà il lavoro di anni, forse di generazioni». Perché de Magistris non lo ha fatto? Forse per il comprensibile entusiasmo del neofita, forse perché il meccanismo pavloviano frase virtuosa-ovazione della folla, che in campagna elettorale ha il suo peso, è un meccanismo difficile da disinnescare. Il giovane sindaco ha più di mezza Napoli (e di mezza Italia) dalla sua parte. Lavori molto, non prometta nulla e forse riuscirà a farcela.
LA REPUBBLICA del 13 luglio 2011
La gretta, striminzita legge sul fine-vita voluta dalla maggioranza non è solo illiberale, perché costringe gli individui, proprio nel loro momento di estrema debolezza, a una morale imposta. È anche profondamente classista, perché da quel vincolo possono agevolmente liberarsi soprattutto i più facoltosi, i più colti e i più cosmopoliti, ai quali l´Italia appare ogni giorno di più una piccola provincia arretrata e (in questo caso) violenta, dalla quale uscire ogni volta che si desideri vivere più liberamente e liberamente morire. Mentre chi ha meno soldi e meno esperienza del mondo rimane inchiodato a questa croce, e sarà costretto a morire come vogliono i cardinali e non come vogliono loro o come detta la natura o come suggerisce il loro personale, inviolabile rapporto con la morte e con l´eterno. C´è una oramai millenaria retorica sugli umili come favoriti dal Padre, e di più facile accesso nel regno dei cieli. Ma si rinnova il sospetto, in occasioni come queste, che la predilezione per gli umili non sgorghi tanto dal cuore di Dio quanto dall´arbitrio delle gerarchie: che senza gli umili da dirigere e da controllare, non dirigerebbero né controllerebbero più niente e nessuno.