LA REPUBBLICA del 7 luglio 2011
Ci saranno anche utili scrupoli e pensose alternative, dietro la decisione del Pd di astenersi sull´abolizione delle Province proposta da Di Pietro. Ma l´effetto sull´opinione pubblica – devastante – è quello di un voto di potere, che assimila l´astensione del Pd alla posizione di Pdl e Lega, che le Provincie se le tengono strette. Non può essere un caso che i tre maggiori partiti italiani, cioè quelli con il personale politico più numeroso, si siano messi di traverso, e dopo anni (decenni) che si discute di snellire l´enorme apparato buro-politico e ridurne i costi, abbiano ottenuto l´ennesimo rinvio. Come non pensare che il sistema dei partiti anteponga i suoi problemi interni (di personale, di posti di lavoro, di fette di potere da gestire) alle esigenze del Paese? E come non pensare che questo meccanismo auto-riferito, e quasi autistico, sia così devastante da spingere il principale partito di opposizione – in un momento come questo, poi – a confondersi con interessi di casta, a irritare molti dei suoi elettori, ad alzare un mattone in più nel maledetto muro che separa gli eletti dagli elettori? Un partito non è un´azienda, si dice da anni a sinistra per segnare le distanze dal berlusconismo. Ma se poi, quando si vota e si decide sugli assetti della politica e sulla vita amministrativa, un partito vota come se fosse un´azienda che difende i propri interessi, la differenza diventa molto meno percepibile.
LA REPUBBLICA del 19 luglio 2011
Nel potente articolo di Carl Bernstein (Repubblica di domenica) sullo scandalo che sta travolgendo l´impero di Rupert Murdoch, impressionava l´estrema durezza con la quale il grande giornalista, coautore dello scoop sul Watergate, giudica la stampa popolare anglosassone, quella incentrata sul gossip. Il "segreto" del successo di Murdoch, per Bernstein, è uno solo: l´abbassamento vertiginoso della qualità giornalistica, fino a sostituire alla "faticosa ricerca della verità" quella parodia della realtà che è il gossip. Nel nostro piccolo, anche in Italia abbiamo sperimentato questa progressiva sostituzione della realtà con un suo scadente surrogato, edulcorato e sciocco. Ma il problema è mondiale: la società di massa ha creato un nesso forte e chiaro tra la cattiva qualità e il successo commerciale. Accade per i cibi, per il giornalismo, per la politica, per il turismo, per tutto. Non so quanto sia fondata l´idea (classista) che la qualità sia destinata solo a un pubblico di nicchia, e il "popolo" sia per definizione, direi per destino, di bocca buona. Ma so che, nell´attesa di capire quanto solido e duraturo sia l´impero della mediocrità, l´autostima di ciascuno è la sola bussola che conti, anche per i giornalisti. Forse non si può scegliere se diventare Bernstein o occuparsi delle gravidanze delle attrici. Ma si può scegliere, almeno, di provarci.
LA REPUBBLICA del 18 giugno 2011
"Il linguaggio è importante", scrive Pierluigi Battista sul Corriere biasimando le sgarberie e la rozzezza verbale di alcuni (molti) dei governanti. Già. Ma il linguaggio era importante anche "prima". Quando la destra vinceva. Quando non al nervosismo o allo choc della sconfitta, ma alla sicumera del potere si potevano attribuire l´aggressività e le insolenze (Bossi che mostra il dito medio, Bossi che fa il gesto dell´ombrello, Calderoli che vuole portare i porci a pascolare davanti alle moschee, Berlusconi che dà del coglione a chi non lo vota: la lista è interminabile). Non è agli sconfitti, è soprattutto ai vincitori che urge rinfacciare la bassa qualità dei comportamenti e delle parole. La vittoria non è un lasciapassare, semmai è un ulteriore carico di responsabilità. A Vendola, giustamente, è stata rimproverata una smagliatura ("abbiamo espugnato Milano") uscitagli di bocca proprio nel momento del trionfo. Ci si chiede – e non è una polemica – se la notte sarebbe stata meno lunga, la caduta di stile meno implacabile, se ciò che appariva protervo e insopportabile, nel potere berlusconiano e bossiano, lo fosse stato per chiunque aveva occhi per vedere e orecchie per sentire. Noi moralisti di Repubblica saremmo stati molto felici di dividere con qualcun altro la fatica e la noia (soprattutto la noia) di ripetere per quasi vent´anni le stesse cose.
LA REPUBBLICA del 8 luglio 2011
Seguo con parecchia amarezza l´affastellarsi di "rivelazioni" sulla Rai controllata e manipolata dagli uomini di Berlusconi (cioè, in un colpo solo, dal governo e dalla concorrenza). L´amarezza è dovuta alla totale inutilità di quanto, negli anni, è stato detto e scritto in proposito. Valanghe di articoli, documenti sindacali, vertenze interne rendevano esplicito uno scandalo che, prima che nei comportamenti, era nelle cose. Lo scandalo era (è) il conflitto di interessi, la cui conseguenza tecnicamente e politicamente più macroscopica era che la televisione pubblica italiana fosse gestita dai suoi diretti concorrenti: una follia in termini di mercato oltre che in termini di libera informazione. Francamente, non è molto interessante sapere che cosa dicesse nelle sue telefonate la signora Deborah Bergamini, ex segretaria di Berlusconi sistemata sul ponte di comando della Rai non certo per fare il bene di viale Mazzini. Molto più interessante sarebbe capire come questa vera e propria alienazione di un bene pubblico sia stata accettata, sopportata, subita (trovate voi il termine giusto) dal sistema politico italiano, dai cosiddetti organi di controllo, dall´etica pubblica di un Paese che ha considerato normale, per quasi vent´anni, quel gigantesco sgarro alla libertà e al mercato che è stato (che è ancora) il conflitto di interessi. Mediaset comandava in Rai: ce ne accorgiamo adesso?
LA REPUBBLICA del 2 giugno 2011
Tra le varie stravaganze post-elettorali, fa spicco quella uscita di bocca a Formigoni che, papale papale, propone Berlusconi al Quirinale così da liberare il posto di leader del centrodestra a un altro, magari lui stesso. Che un cattolico candidi al Colle l´uomo del Bunga Bunga è già una stupefacente assurdità sul piano etico: ma questi sono conti che Formigoni farà con se stesso, ammesso che conservi l´abitudine di farli. Perfino peggiore è il giudizio politico che il governatore di Lombardia si attira, alla luce del fatto che per quella carica sono richiesti alto profilo istituzionale (quanto ne basta per presiedere anche il Consiglio superiore della magistratura), moderazione nei comportamenti e nelle esternazioni verbali, e una statura politica tale da potersi sollevare al di sopra delle fazioni. Nessuna di queste virtù è in dotazione all´uomo di Arcore, che per giunta è appena sortito da una rovinosa sconfitta politica imputabile proprio a quei difetti di faziosità, insofferenza alle regole, smodatezza di toni e di pensiero che lo rendono palesemente inabile al Colle. Come diavolo si fa, dunque, e proprio in questi giorni, a disegnare un percorso politico che vede Berlusconi al Quirinale? Per formulare un´assurdità del genere, si deve essere più ciechi o più arroganti? Sarà stato informato, il governatore Formigoni, dell´esito delle elezioni?
LA REPUBBLICA del 7 giugno 2011
È difficile, ma non impossibile, che si arrivi al quorum per i quattro referendum del 12 giugno. Dei referendum, in passato, si è abusato fino a svilirne il valore: non per caso è dal ´95 che il fatidico quorum non viene raggiunto. Ma i meno giovani ricordano perfettamente la portata storica di almeno tre referendum (legalizzazione di divorzio e aborto, referendum elettorale di Mario Segni) che sconquassarono il quadro politico e soprattutto diedero il segno di una maturazione profonda, e inattesa, dell´opinione pubblica. Nel clima di riscossa civile aperto dalle amministrative, i quattro quesiti di domenica prossima potrebbero sortire un effetto analogo: ridare alla politica quel significato di cambiamento, di salto di qualità, che la politica riveste nonostante (e contro) il deperimento degli ultimi anni. Chiedete a tutti di andare a votare, discutere con gli incerti e con gli indifferenti, non vergognatevi di sentirvi propagandisti importuni, così come non mi vergogno di scrivere queste righe di smaccata propaganda politica. La posta è alta, il contenuto dei quesiti molto rilevante. Specie i due referendum sull´acqua chiedono di rimettere l´accento sulla dimensione pubblica della nostra convivenza. La politica è tornata. Dite a tutti di tornare alla politica.
LA REPUBBLICA del 14 maggio 2011
Avere rivolto una falsa accusa al suo avversario gioverà o non gioverà alla campagna elettorale di Letizia Moratti? A Milano non si discute d´altro; e il solo fatto che se ne discuta è un indizio tremendo sullo stato della nostra civiltà politica. Un´accusa falsa dovrebbe infatti ritorcersi contro chi la rivolge, almeno in teoria. Se qualcuno dubita di questa logica consequenzialità tra causa ed effetto, è per due ragioni. La prima: è probabile che una parte non piccola degli elettori non sia informata dell´infondatezza dell´accusa. La seconda (ben più grave): è probabile che molti elettori di centrodestra, anche se informati dell´infondatezza dell´accusa, la considerino comunque calzante ai loro pregiudizi su Pisapia, e dunque vera a prescindere. In altre parole, nell´elettorato sedicente moderato, l´odio per "la sinistra" sarebbe così radicato da considerare un dettaglio trascurabile il fatto che Pisapia fosse colpevole o innocente. L´immagine di Pisapia "estremista e amico dei terroristi" serve a milioni di elettori per evitare di fare i conti con la realtà, con la politica, con il giudizio che si è chiamati a dare sul governo di Milano. Berlusconi – che conosce bene il suo elettorato – è sicuro che la sortita di Moratti sia stata vincente. È sicuro, cioè, dell´efficacia della menzogna presso moltissimi italiani. Se ha ragione, vuol dire che ci siamo giocati, come italiani (anche di destra) non questa o quella elezione, ma la realtà.
LA REPUBBLICA del 14 giugno 2011
È una vittoria autoprodotta dai comitati, dalle associazioni, dai blog, dagli individui-cittadini che attraverso mille strade, mille ragioni (e perfino attraverso alcuni partiti, vivificati dall´impatto con l´ondata civile) hanno voluto riprendere in mano il bandolo della cosa pubblica. È una vittoria della società contro il Palazzo (parola che uso malvolentieri, ma in questo caso è perfetta), della politica contro il potere, dell´informazione diffusa che è riuscita a by-passare i media, e a turlupinare chi cercava di turlupinarla. In sequenza secca, l´abbinata amministrative-referendum ribalta la scena della politica italiana, dando al concetto (nobile ma astratto) di "opinione pubblica" un peso formidabile, il volto concreto di milioni di persone. Il boicottaggio arrogante e ottuso della classe di governo (quasi compattamente astensionista), alla luce dei risultati, la fa apparire spiazzata, isolata, fuori tempo: una consorteria in vertiginoso declino. Perfino il problema Berlusconi, che fino a un minuto fa ci appariva una montagna, è solo un aspetto, e forse neanche quello decisivo, di un passaggio d´epoca impetuoso: che rimette l´accento sulla cittadinanza, sulla comunità, insomma sulla politica di tutti e per tutti. La campana suona anche per la sinistra: niente potrà più essere pensato e deciso nelle vecchie stanze chiuse dei notabili di partito.
LA REPUBBLICA del 3 giugno 2011
Il goffo, spregevole trucco del governo per evitare il referendum sul nucleare, a rivederlo adesso dopo la sentenza della Cassazione, sembra esattamente quello che è: un goffo, spregevole trucco. Fino a pochi giorni fa eravamo rassegnati a considerare sortite del genere, malgrado la loro oggettiva miseria politica, come il colpo di mano di un abilissimo baro, che falsa le carte ma riscuote l´applauso di un pubblico stregato dalla sua faccia tosta. Ora che l´applauso sta mutando, inesorabilmente, in fischi e pernacchie, non basta godersi il pur legittimo sollievo. Dobbiamo chiederci su quali debolezze, quali credulità, quali complicità il baro ha potuto costruire, per vent´anni, un consenso così vasto e appassionato. L´Italia non può essere cambiata in pochi mesi, sia pure i primi mesi fatidici del 2011, anno del centocinquantenario e della impetuosa riscoperta di un´identità civile. Vent´anni di incantesimo non si cancellano così in fretta. Vorrei ricordare che il Parlamento di questo Paese, pochi mesi fa, ha votato in maggioranza, e scandalosamente, in favore di un bugia conclamata: che Berlusconi abbia telefonato alla questura di Milano per evitare un incidente diplomatico con Mubarak e la sua nipotina. Veniamo da troppe menzogne, da troppe vergogne, da troppo servilismo, da troppe prepotenze per poterci illudere che tutto sia finito così facilmente.
LA REPUBBLICA del 17 maggio 2011
Nella città italiana che, insieme a Roma, ha pagato il prezzo più alto all´odio politico degli anni Settanta, il tentativo di riesumarlo si è ritorto contro i suoi tardivi artefici. La carta di "Pisapia amico dei terroristi", sventolata dai due più importanti giornali di destra italiani (entrambi milanesi), ha contato come il due di picche. La "moderata" Moratti, che l´ha goffamente impugnata per esorcizzare il suo rivale, sa chi deve ringraziare per il suo tonfo. Di qui al ballottaggio, è lecito attendersi ogni bassezza. Si moltiplicheranno gli attacchi personali a Pisapia, alla sua storia politica, ai suoi familiari. È stata esemplare, fin qui, la sua saldezza di nervi, nonché una signorilità che, lei sì, ha certamente contribuito ad accreditare di un profilo davvero "moderato" un candidato che veniva da Rifondazione. Sarà certamente felice anche Massimo D´Alema, che ha sempre sostenuto che non basta vincere le primarie, conta vincere le secondarie. A Pisapia le primarie sono servite per "scaldare" il suo elettorato e compattarlo (anche grazie alla lealtà del rivale sconfitto, Stefano Boeri). Non così è andata a Napoli, dove il Pd paga il prezzo di primarie obbrobriose, finte e manipolate, e giustamente arranca. Aiuta e conforta riscoprire che in politica ciascuno è responsabile del proprio destino. E che nella vittoria e nella sconfitta pesa, e molto, ciò che si dice, ciò che si fa, ciò che si è.