LA REPUBBLICA del 29 giugno 2012
Se davvero – come scrive l’Espresso in edicola basandosi su un’inchiesta della magistratura – il “mariuolo” Mario Chiesa fosse diventato “referente della Lega Nord negli ospedali lombardi”, Tangentopoli potrebbe finalmente passare agli archivi come la beffa suprema ai danni di quegli italiani onesti che si illusero – ai tempi – di poter vivere in un paese a loro misura. E alla caduta di Craxi, e dei suoi “mariuoli”, manifestarono, accesero fiaccole, esultarono come per una seconda Liberazione. Pensate se, vent’anni fa, qualcuno avesse detto loro che Mario Chiesa, allora simbolo assoluto del malaffare politico, passata la buriana non solo sarebbe risorto politicamente, ma lo avrebbe fatto come “referente” d’affari della Lega, che allora era il partito della forca, del repulisti, delle zero garanzie per gli imputati. La Lega e i suoi giornalisti di riferimento usarono le parole, ai tempi, come le querce in Alabama, per appenderci la gente senza processo. Ora chiedono – per se stessi e per i loro amici – molte più garanzie di quante erano disposti a concedere agli imputati di vent’anni fa. Vedi come è diversa, la giustizia, vista sotto la quercia o sopra.
LA REPUBBLICA del 16 giugno 2012
Fa simpatia il nuovo sindaco di Parma, il pallido Pizzarotti, che per raccomandarsi a qualche santo dei dintorni si insedia citando Guareschi. La citazione è un po’ goffa, ma congrua: “nel suo mondo alcune figure si scontrano, ma poi arrivano al bene dei cittadini”. Voleva dire che Peppone e don Camillo litigano su tutto, ma sulle grandi scelte, quelle che mettono in gioco la dignità e l’identità dell’intera comunità, si ritrovano alleati. È una versione nobile (e letteraria) di quello che oggi si chiama “consociativismo”. Fa specie, la citazione, in bocca al primo sindaco importante di un movimento che ha fatto sfracelli maledicendo i compromessi, minacciando sfracelli, rifiutando qualunque tipo di alleanza o apparentamento. Così, del resto, è il potere: se si è stupidi rende più arroganti, se si è intelligenti rende più umili, perché se ne percepisce il peso. Quando ero giovane giudicavo malissimo il rivoltoso che entrando a Palazzo abbassava la cresta, cambiava tono e atteggiamento. Pensavo al tradimento. Con gli anni, si arriva a capire che è fisiologico debuttare da rivoluzionari e governare da riformatori. Pizzarotti merita tutti i nostri auguri. Anche perché governa una città difficile e poco affidabile: prima di lui i parmigiani avevano eletto la maggioranza più incapace e corrotta del pianeta. Non so se lo meritano, Pizzarotti.
LA REPUBBLICA del 6 luglio 2012
La feroce determinazione con la quale i berlusconiani cercano di conservare il controllo della Rai non si spiega solo con i normali parametri della lotta per le poltrone. C’è un sovrappiù simbolico che è perfino imbarazzante dover ripetere: un forte complesso di inferiorità culturale che scatena nella destra italiana l’impulso violento a occupare per potere ciò che non è in grado di occupare per merito. La vera tragedia del berlusconismo morente, dopo quasi due decenni di purghe, censure e scorrettezze (la più scandalosa delle quali è avere imposto alla Rai uomini Mediaset, leali alla concorrenza anche se ritiravano la busta paga in viale Mazzini), è non essere stato capace di formare dirigenti, produttori, conduttori, artisti all’altezza degli odiati e cosiddetti “rossi”. Il centrodestra — con gli ovvi distinguo — ha avuto la sua piena espressione culturale ed estetica in Mediaset. Ma sapeva, sentiva, che molte trasmissioni e molti uomini della Rai facevano ombra, eccome, a quella cultura e a quell’estetica. Per questo la governanceberlusconiana alla Rai si è manifestata soprattutto in poche e dimenticate produzioni colate a picco, e nell’accanito boicottaggio di quello che, in Rai, funzionava bene. Non c’era bisogno di ordini superiori. Era un invincibile istinto: colpire chi è più bravo di te.
LA REPUBBLICA del 17 giugno 2012
Il calcio italiano non merita un “premier” come Cesare Prandelli. Che di fronte all’insopportabile e onnipresente cicaleccio sul “biscotto” (per i non addetti: pareggio concordato) tra spagnoli e croati, semplicemente rifiuta di considerare l’ipotesi, parendogli che il pensare male faccia male, e basta. Una sorta di onestà obbligatoria, sicuramente a rischio di ingenuità, ma esemplare in un uomo di sport. Prandelli non può dirlo, ma certamente pensa che il nostro calcio, in questo momento, è l’ultimo al mondo che può permettersi il lusso di fare la morale agli altri. È il calcio più inquisito del mondo, segnato da scandali infiniti nel senso che sono tanti ma anche nel senso che non finiscono mai. È un calcio che non sopporta neanche le proprie regole (vedi l’assurda polemica sulla “terza stella” della Juve). È un calcio in larga parte succube delle sue curve malavitose (vedi la disgustosa cerimonia della “consegna delle maglie” dei giocatori del Genoa ai capi tribù ultras). È un calcio che da quattro giorni non riesce a parlare d’altro che di un fantomatico “biscotto” ai propri danni: perché è tipico degli immorali essere anche vittimisti: la colpa è sempre di qualcun altro.
LA REPUBBLICA del 10 luglio 2012
Rinnegando Miss Padania, il neosegretario Maroni cerca disperatamente di tracciare i connotati di una Lega rincivilita, un po´ meno "popolana", un po´ meno incolta. E´ un´impresa titanica. La rivendicazione (in chiave anti-borghese) della mangiata grassa, della pacca sul culo, della poppa tracimante, sono uno degli ingredienti fondanti della Lega. Nell´epopea leghista c´è una componente quasi rabelaisiana (se i leghisti non si offendono: Rabelais è pur sempre uno scrittore), carnivora, vinosa, con cacciagione meglio se di frodo (minacciarono, i leghisti del Trentino, di mangiare un orso venuto da fuori), le donne ai fornelli, gli uomini a tavola, e a ramengo il politicamente corretto che è roba poco virile. Morta la secessione, morente il federalismo, perduto il governo, che cosa resta ai leghisti se gli levano pure la saga barbarica, il grasso che cola, le selezioni locali di Miss Padania con i giurati che valutano le figliuole con lo sguardo vinoso, e usando lo stesso calibro temperato negli anni per valutare magnifiche mucche frisone, olandesi e limousine? Guardi Maroni, il femminismo è una roba per noi fichetti di sinistra, lasci stare, non traumatizzi così la sua gente.
LA REPUBBLICA del 20 giugno 2012
Adesso che la Lega ha perduto gran parte del suo potere di ricatto, forse possiamo tornare a parlare, con sollievo, di alcune qualità del Nord senza sentirci complici di una cultura di strapaese. Per esempio: le candidature di Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi alla Rai (scelta felice dell’associazionismo, innescata dal passo indietro virtuoso di Bersani) sono una rivincita della Milano migliore, la Milano etica, democratica e “protestante” che si contrappone quasi naturalmente alla Roma peggiore, quella maneggiona, consociativa e curiale. Probabile che questo dato (due milanesi su due) sia sfuggito alle associazioni nazionali sollecitate a indicare due nomi per il Consiglio d’amministrazione più discusso d’Italia. Ma non c’è dubbio che a configurare il tasso (alto) di autonomia e di eticità di Colombo e Tobagi abbia contribuito assai la loro formazione nella Milano di cui sopra, la stessa di Ambrosoli, di Mani Pulite, di Tobagi padre. È strano, piuttosto, che il dato sfugga a una persona che a Milano ha lungamente lavorato, Tonino Di Pietro, che non riesce a vedere nell’indicazione di quei due nomi altro che una nuova e mutata forma di lottizzazione partitica. Dall’uomo che ha portato in Parlamento De Gregorio, Scilipoti e Razzi ci si aspetterebbe, sulle nomine di qualunque ordine e grado, maggiore prudenza nei giudizi.
LA REPUBBLICA del 11 luglio 2012
Le sinistre analogie tra l’amico Putin e Stalin (vedi la bella inchiesta di Nicola Lombardozzi su R2 di ieri) vanno ovviamente prese con le molle, tanto mutati sono i tempi e i modi. Ma fanno tornare in mente, lustrandolo un poco, l’antico argomento polemico di quei comunisti che imputavano non all’ideologia in sé, ma alla sua applicazione asiatica la nefasta illiberalità di quei regimi. Manca ogni ombra di controprova: se un comunismo parigino sarebbe stato più charmant, uno inglese più spiritoso, uno italiano più lassista, eccetera. Ma intanto Putin viene a ricordarci — e dobbiamo essergliene grati — che a non amare la libera opposizione, le armi della critica, la stampa indipendente, non sono solo le dittature conclamate. Infiniti poteri e uomini di potere sono, anche nelle democrazie formali, ingessati dal sussiego o dalla paura o dalla tracotanza, e si sentono depositari di una verità o di un bene che sono disposti a infliggere ad ogni costo. Di Putin non conta sapere quanto sia stato del Kgb, quanto comunista, quanto anticomunista, quanto oggi sia di destra e filoplutocratico e amico delle varie caste e mafie che si sono mangiata viva la Russia. Conta sapere se conosce i suoi limiti personali e i limiti del suo potere: solo quella è la democrazia.
LA REPUBBLICA del 21 giugno 2012
C’è davvero una “incompatibilità tra le regole dominanti dell’economia e le regole, ad essa sottomesse, della democrazia”, come si chiedeva ieri su questo giornale Gad Lerner riflettendo sulla situazione greca? Guardate che la domanda, specie se a porla non è un giovane rivoluzionario ma un maturo socialdemocratico come Lerner (e come me), è di quelle che fanno tremare le vene ai polsi. Perché se è vero, che le regole di questa economia sono monocratiche e sopraffattrici, prima o poi si tratterà di sovvertirle — o almeno correggerle radicalmente — prima che la democrazia ne esca definitivamente commissariata. E non sono le frange radicali, è la sinistra di massa, quella oramai incanutita nel quasi placido tran tran del parlamentarismo, delle elezioni, di un’alternanza che di alternativo ha davvero pochino, che si gioca il futuro se non sarà in grado di scuotersi. Il socialismo europeo, scrive ancora Lerner, rischia l’irrilevanza se si rassegna a considerare velleitaria una riforma democratica dell’architettura dell’Unione. Dato (quasi) per scontato che i socialisti non credono più nel socialismo, possiamo sperare che credano almeno nel primato della democrazia, e nella possibilità di sottomettere i famosi “mercati” ad essa, e non essa ai “mercati”? Vendola sappiamo già quello che pensa. Ma Bersani? Qui non serve la cavalleria. Serve la fanteria.
LA REPUBBLICA del 12 luglio 2012
Parecchi anni fa i “microfoni aperti” di Radio Radicale fecero intendere, per la prima volta, che il prezzo di una libertà senza regole e senza selezione è moltiplicare la voce dei mascalzoni e — soprattutto — degli idioti. Oggi, su una scala infinitamente più grande, è il web che provvede a ricordarcelo. E non è necessario tirare in ballo i siti nazisti o le altre macro-paranoie che trovano, in rete, troppo comodo alloggio. Basta leggersi i normali “commenta la notizia” che ogni sito, anche quelli dei quotidiani importanti, si sentono in obbligo di attivare. Ieri, per esempio, le edizioni online di tutti i quotidiani davano la notizia di un incidente stradale, fortunatamente non grave, a Nicoletta Braschi, moglie di Roberto Benigni. Seguiva, tra gli altri, questo commento di un lettore: “Poteva anche prendersi un’auto più sicura di una Golf, non mi pare un’auto da signori”. La domanda che dovremmo farci, e che ormai nessuno di noi si fa più, è: perché questo pensierino gretto e mediocre, un tempo confinabile al bancone di un bar, deve finire sotto gli occhi di centinaia di migliaia di persone? È obbligatorio? Lo stabilisce una legge? Ce l’ha ordinato il dottore? E soprattutto: siamo ancora in tempo per discuterne?
LA REPUBBLICA del 22 giugno 2012
A i meno giovani la vicenda di Pomigliano (con la Fiat costretta da una sentenza a non discriminare gli iscritti alla Fiom, il sindacato più combattivo) ricorda tempi duri e remoti. Quando in fabbrica gli operai comunisti erano destinati a una sorta di confino produttivo, e presentarsi al lavoro con l’Unità in tasca rendeva la vita davvero difficile. Ma era decisamente un’altra epoca: c’era l’Unione Sovietica, il Pci, Valletta, la Celere di Scelba, l’Italia era territorio di confine tra due imperi contrapposti, le tensioni politiche e sindacali erano il prodotto di un braccio di ferro ideologico, storico e geografico che a entrambe le parti pareva ferale. Non si capisce, nel 2012, come abbia fatto la Fiat di Marchionne, che ha già problemi non da poco da affrontare, a ficcarsi nello sgradevole budello dal quale ora deve sortire (malamente) su ordine della magistratura. Quando, pochi anni fa, il manager canadese arrivò a Torino, ogni sua mossa, parola, atteggiamento, a partire dal famoso maglione, parevano nuove, sinonimo di modernità, di una mentalità diversa. La vicenda di Pomigliano fa retrocedere la Fiat (non solo la sua immagine, anche la sua politica, anche la sua sostanza imprenditoriale) agli anni Cinquanta. Ne valeva la pena?