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Il mito della prevenzione del male con internet – di Carlo Blengino -

PUBBLICATO IL  gennaio 18 -  News, Web

In questi giorni non c’è governo europeo che non ipotizzi maggiori poteri ai propri servizi di intelligence e non c’è agenzia preposta alla sicurezza nazionale che non richieda maggiore libertà nella cosiddetta digital net-work intelligence (così la chiama l’NSA): sorveglianza di massa, guerra alla crittografia, richieste di accesso ai sistemi operativi dei device con backdoor dedicate e, ovviamente, totale trasparenza delle banche dati, pubbliche o private che siano.

Il dibattito che ne segue si riduce ad uno scontro sicurezza contro privacy sulle reti di comunicazione digitale. Ma la vittoria è scontata: svendiamo la nostra privacy per farci dire qual è la pizzeria più vicina o per risparmiare sull’assicurazione auto, come potremmo, noi che nulla abbiamo da nascondere, non diventare di buon grado ancor più trasparenti verso lo Stato, se ciò consentirà di sconfiggere il terrorismo dell’IS? È una semplificazione disarmante, e per quanto si possa esser snowdeniani e paladini del diritto alla protezione dei dati, di fronte a quanto sta avvenendo in Europa mette male tener la posizione parlando di privacy.

Per la verità non è neppure necessario scegliere come terreno di scontro il terrorismo; basta la lotta alla mafia, o alla corruzione; per non parlare della pedofilia e della droga. E d’altra parte Renzi a Venaria, all’Italian digital day, è stato chiaro: <<Io sostengo che una delle conseguenze della digitalizzazione è che l’evasione fiscale sarà ridotta a zero>>

Ne sono convinto anch’io; ed è come dire che il digitale, anche in Italia, rende possibile l’impossibile. Ma a quale costo?

I digital champions sono riusciti a trasmettere ai nostri governanti e alla macchina dello stato l’ottimismo degli innovatori, quello delle startup e delle app che offrono  una soluzione ad ogni problema (e che talvolta ci impongono una soluzione anche dove non c’era problema): possiamo salvare il pianeta dall’inquinamento monitorando ogni nostro consumo e possiamo controllare ogni angolo delle nostre città per  prevenire ogni devianza: la trasparenza totale ci salverà dal malaffare e gli oggetti connessi, molti in un futuro prossimo, non potranno più esser rubati e si auto-proteggeranno dalla ricettazione. Non è proprio così, ma la narrazione è quella.

C’è una parte del discorso di Renzi che merita di esser trascritta:

«Io sono esaltato dalle possibilità che la tecnologia dà ad ognuno di noi, io sono per fare più controlli, per esser più operativo, per avere un sistema di informatica maggiore, di digitalizzazione delle immagini, di riuscire a fare il riconoscimento facciale, io sono per mettere in comune tutte le banche dati, io sono per far si che ogni telecamera sia a disposizione della forza pubblica, per poter dire che quella realtà lì io riconosco una persona. Io sono per taggare”
È una forma di soluzionismo da tecno-entusiasti, che funziona perfettamente nella comunicazione – per fortuna (per ora) un po’ meno nella realtà – e che se applicato alla sicurezza nazionale, al terrorismo e in generale alla prevenzione dei crimini e delle devianze, opportunamente nutrito da paura e insicurezza,  non trova limite nella privacy.

Infatti non è una questione di privacy. O almeno non nel concetto di privacy che ancora ci portiamo dentro, per cui se nulla hai da nascondere, nulla hai da temere. Una parte sempre maggiore della nostra vita è tradotta e memorizzata in dati remoti: i nostri desideri e le nostre passioni sono ricerche su Google e siti visitati, le nostre comunicazioni e i nostri movimenti sono fissati negli smartphone e ridondati nel cloud, le nostre spese e i nostri consumi sono catalogati, le nostre amicizie sono reti sociali scandagliate da mille applicazioni. Queste informazioni non sono solo “dati” più o meno sensibili, più o meno segreti da tutelare con un OK sul banner dei cookie. Quella roba lì, messa insieme, siamo noi. E siamo noi in formato macchina, o come dicono gli informatici, “machine readable”. È il nostro corpo digitale.

Se lo stato intende avere libero accesso al nostro corpo digitale per fini di prevenzione e di sicurezza nazionale, individuare come unico limite la privacy vuol dire minimizzare il problema e averla vinta: nessuno di noi si sente un obiettivo da servizi segreti, non abbiamo nulla da nascondere e tutto sommato ci sentiamo sardine nel branco, protetti da una normalità al di sopra di ogni sospetto. Ma per prevenire l’attentato o il crimine, e perché no l’evasione, la devianza o l’immoralità, non è l’informazione sul singolo soggetto ciò che serve: quello è materiale della polizia giudiziaria, della magistratura, e la ricerca delle prove segue le garanzie e i vincoli del codice di procedura penale. Per l’intelligence  ciò che occorre è proprio il branco di sardine, la massa. Nell’attività di prevenzione la richiesta di maggiori poteri nella digital net-work analysis risponde all’esigenza di creare modelli situazionali di rischio. Trovare il pericolo, piuttosto che investigare su un pericolo noto. E per taggarne uno devi scansire tutti. Devi dividere la “normalità” da ciò che è sospetto, con modelli anonimi: saremo poi noi, visitando quel sito, frequentando quel soggetto già taggato, usando quella tecnologia sospetta o professando la religione sbagliata ad infilarci inconsciamente nel gruppo dei sospetti. E una volta finiti lì, con un punteggio di pericolosità a noi ignoto, ne subiremo le conseguenze.

Nel mito della prevenzione sul web che ci proteggerà dal male – ce ne sarà sempre uno – l’operazione di intelligence diventa inevitabilmente una sorta di selezione sociale. Condotte del tutto lecite (l’uso della crittografia, la frequentazione di un sito anarchico, o una fede sconveniente) diventano condotte pericolose, da evitare per non modificare il nostro (ignoto) rating di rischio. Si creano poi delle specie di pre-crimini, azioni lecite che diventano criminogene in quanto commesse da persone che corrispondono ad un determinato profilo astratto, di terrorista, di evasore, di oppositore… Se poi i modelli sono generati da algoritmi, e così non può che essere, si crea una automatizzazione, se non della virtù, almeno della normalità rassicurante. Ci si comporterà bene non per una scelta etica, ma per imposizione tecnologica.

Uno scenario così non è evidentemente una questione di privacy, ma una questione di più consolidate libertà. C’è di mezzo la libertà d’espressione, di informazione, di associazione e di religione. È minata la presunzione d’innocenza e il rischio di discriminazioni diviene inevitabile. È la dignità delle persone a essere minata.

Il libero accesso dello stato al nostro corpo digitale, quale che sia la buona ragione perseguita, non è dissimile da quello del re sul corpo fisico dei sudditi. Lì poi ci fu la Magna Carta Libertatum (1215), poi l’Habeas Corpus Act – nome profetico “che tu abbia il corpo” – (1679)  e poi arrivarono le Costituzioni e i diritti fondamentali.

Prima di adottare soluzioni facili, è bene sapere quali sono i diritti in gioco. Giusto per non regredire volontariamente là dove, pare, vorrebbero portarci i terroristi.

Fonte [ilPost]

SIAE, non è una tassa ma così non funziona – di Guido Scorza -

PUBBLICATO IL  gennaio 18 -  Scrittura, Web

Tra storie di ispettori SIAE che si presentano la notte di capodanno a riscuotere diritti per la musica che anima feste private in strutture che ospitano disabili, la mozione approvata dai giorni scorsi dal Consiglio Regionale della Lombardia per cancellare ogni compenso dovuto per le manifestazioni organizzate dalle amministrazioni locali e dalle associazioni senza scopo di lucro e la dura risposta della Società italiana autori ed editori, il 2016 della SIAE non si è certo aperto nel modo migliore possibile.

Ancora una volta la Società autori ed editori che fu di Verdi e Carducci attira l’attenzione persino di un’istituzione pubblica come un Consiglio Regionale non per i propri meriti nel supporto o nella promozione della cultura nel nostro Paese ma, al contrario, per la rigidità e irragionevolezza delle proprie regole e del proprio agire.

Prima di proseguire, però, val la pena mettere un chiaro una questione per evitare ogni equivoco o fraintendimento: chiunque usa musica altrui nell’ambito di qualsivoglia manifestazione, evento, festa o festino è giusto che chieda il permesso al titolare dei diritti e/o a chi lo rappresenta perché, in fondo, utilizza lo sforzo dell’attività creativa di quest’ultimo per scopi più o meno nobili e/o per far soldi piuttosto che, semplicemente, per intrattenere chicchessia.

Questo principio non ha niente a che fare con le tasse ma rappresenta, al contrario, una regola basilare di civiltà e buon senso: per usare qualcosa di qualcun altro, si chiede permesso che si tratti di un oggetto materiale o immateriale come i diritti d’autore.

Sgombrato, tuttavia, il campo dal rischio di equivoci, non si può nascondere che se così tanto frequentemente soggetti pubblici e privati percepiscono regole ed azioni della società di Viale della letteratura come più simili a quelle di un odioso esattore delle tasse che a quelle di un ente – peraltro pubblico – di promozione e tutela del patrimonio culturale italiano una ragione deve pur esserci e si tratta, evidentemente, di una ragione sulla quale la SIAE, chi la governa e chi, nel Governo, dovrebbe vigilare sul suo operato, farebbero bene ad interrogarsi.

Passi che il gestore di un bar percepisca come un balzello anziché come un sacrosanto compenso per diritti d’autore il corrispettivo della licenza che paga, ogni anno, alla SIAE ma che la percezione sia analoga anche da parte di un Consiglio Regionale come quello della Lombardia sembra, davvero, il segno tangibile che qualcosa non funziona.

E che qualcosa non funzioni, in effetti, è indubitabile.

Tanto per cominciare non funzionano le regole del gioco imposte dalla SIAE e non dalla legge sul diritto d’autore.

Mentre, infatti, è sacrosanto che un autore abbia diritto a farsi pagare anche quando la sua musica è utilizzata in una festa privata alla quale partecipano persone meno fortunate come i disabili o in un evento organizzato da un’amministrazione pubblica se lo desidera è meno ragionevole – ed anzi del tutto irragionevole – che un autore non sia in condizione di rinunciare a qualsivoglia compenso solo ed esclusivamente quando la sua musica è utilizzata in occasioni di questo genere.

Non c’è ragione al mondo per la quale un autore dovrebbe essere privato della libertà di lasciare che la sua musica sia utilizzata, per scopi non commerciali, da chicchessia – o solo da talune categorie di soggetti – senza incassare neppure un euro.

Eppure, ad oggi, un autore iscritto alla SIAE una scelta tanto semplice e nobile al tempo stesso, non la può fare.

Né, d’altra parte, chi organizza un evento senza scopo di lucro ha la possibilità di scegliere in un repertorio firmato SIAE una playlist, utilizzabile senza pagare ciò che, magari, non si può permettere e senza con ciò sentirsi pirata.

Questa regola figlia esclusivamente dell’incapacità della Società autori ed editori di gestire la raccolta ed il riparto dei diritti d’autore in modo più moderno e meno da gabelliere che da ente culturale è una regola che deve essere cambiata ed in fretta.

Lo impone, tra l’altro, la Direttiva dell’Unione europea che il nostro Paese dovrà attuare al più tardi in primavera nella quale, non a caso, il legislatore di Bruxelles ha messo nero su bianco che “Occorre che gli organismi di gestione collettiva che gestiscono diversi tipi di opere e altri materiali protetti, come opere letterarie, musicali o fotografiche, permettano ai titolari dei diritti di gestire in maniera altrettanto flessibile i diversi tipi di opere e altri materiali protetti. Per quanto concerne gli utilizzi non commerciali, gli Stati membri dovrebbero provvedere affinché gli organismi di gestione collettiva prendano i provvedimenti necessari per assicurare che i titolari dei diritti possano esercitare il diritto di concedere licenze in relazione a tali utilizzi. Tali provvedimenti dovrebbero includere, tra l’altro, una decisione dell’organismo di gestione collettiva in merito alle condizioni relative all’esercizio di tale diritto nonché la fornitura di informazioni ai membri su tali condizioni.”.

Ma regole a parte, se la SIAE vuole scrollarsi di dosso l’immagine che l’accompagna ormai da decenni di un carrozzone inefficiente e poco trasparente è fondamentale che restituisca ai titolari dei diritti – che si tratti degli autori o degli editori – maggiore libertà nella gestione dei propri diritti e nel rapporto con gli utilizzatori.

In assenza, infatti, siamo condannati a continuare ad assistere al divaricamento di una frattura che già oggi appare difficilmente sanabile tra utilizzatori delle opere e titolari dei diritti che fa apparire le due categorie più rivali e contrapposte che componenti di una stessa società unita da un patto sociale profondo come quello che, per decenni, c’è stato tra chi produce arte e cultura e chi la utilizza.

Fonte [L’Espresso]

 

Tim Berners-Lee: “Vi svelo i prossimi 25 anni di Internet” – di Riccardo Luna -

PUBBLICATO IL  gennaio 18 -  News, Web

“COME VA in Italia con il web? È vero che state un po’ recuperando il ritardo?”. L’intervista con Tim Berners Lee comincia al contrario. Il papà del world wide web chiede informazioni sul paese dove è appena atterrato e dove passerà due giorni intensi: oggi lancio della campagna di Tim che lo vedrà come testimonial di lusso su tutte le tv all’insegna della generosità della rete; domani mattina, in una sala della presidenza del Consiglio, un seminario con cento esponenti dell’agenda digitale italiana per fare il punto sulle cose da fare alla vigilia di un pacchetto di decreti sul digitale; e la sera bagno di folla sul palco dell’Auditorium per i 40 anni di Repubblica , uno dei primi giornali del mondo ad andare sul web che non a caso festeggia con chi il web lo ha creato.

Lui ha appena festeggiato il 25esimo compleanno del primo sito della storia, una paginetta in bianco e nero con la spiegazione di cosa fosse un ipertesto (un testo con dei link, per dirla banalmente; la base del web, sostanzialmente). Il 20 dicembre scorso il Cern di Ginevra, dove lavorava quando a 35 anni inventò il www, ne ha celebrato le nozze d’argento, “anche se io francamente non ricordo fosse davvero quel giorno, secondo me era novembre, ma non importa, il web per qualche motivo viene festeggiato ogni anno”.

Non è strano: dipende se uno considera la prima proposta che il fisico inglese fece al suo superiore, quella dove gli risposero che era vaga ma eccitante; il primo prototipo, che si chiamava Enquire e finì male perché il dischetto dove era scritto il codice andò perduto; o il primo sito, appunto, realizzato con il NeXT, un avveniristico personal computer che Steve Jobs fece quando non era in Apple. “Per il web non ci fu un vero momento di inizio quanto piuttosto un percorso non ancora finito”, dice col tono paziente di chi questa frase l’ha già detta un milione di volte.

Venticinque anni dopo il primo, i siti web nel mondo sono quasi un miliardo: cosa resta da fare?
“Le cose che vediamo sono così meravigliose che uno può dire che la missione ormai è finita. Ma ci sono tante persone che non sono connesse alla rete, il lavoro da fare è ancora tanto. E poi va aggiunto che il modo in cui molte persone usano la rete non è il massimo, non è esattamente quello strumento per collaborare che avevo immaginato 25 anni fa”.

Siamo in una fase in cui ogni giorno qualcuno dice che la rete è pericolosa e che il web è “rotto”, non funziona come dovrebbe. È diventato uno strumento di censura e sorveglianza di massa o per vendere i nostri dati.
“Il web non è diverso dall’umanità, che è fatta di cose orribili e altre meravigliose. Chi accusa il web di avere un lato oscuro, dovrebbe riflettere sul fatto che quel lato oscuro è nell’umanità stessa. Ciò detto io sono ottimista e resto convinto che il saldo finale, il bilancio di una umanità più connessa resta positivo. In ogni caso è un buon segno della maturità di Internet il fatto che la gente si faccia delle domande sugli effetti del web”.

In Europa gli ultimi dati dicono che c’è un rallentamento del digitale: la crescita di nuovi utenti mostra segni di stanchezza. Una parte della popolazione inizia ad essere diffidente?
“Pensate a uno che vive su una montagna, perché dovrebbe cambiare il suo stile di vita con la rete? Magari non capisce perché dovrebbe farlo, teme di perdere le sue tradizioni. Che fare? Difendere quelle tradizioni ma portare lo stesso la rete sui cucuzzoli delle montagne e gentilmente spiegare che questo renderà la loro vita migliore. Consentendo allo Stato di avere servizi pubblici più efficienti e meno costosi”.

L’Italia si sta finalmente muovendo, ma ancora oggi in tutte le classifiche è in fondo: qual è il suo consiglio?
“Un paese come il vostro, con tanta cultura, con tanta bellezza, non merita di stare così indietro. È uno spreco incredibile. Credo che sia importante far passare il messaggio che il digitale non sono migliora la vita, la rende più facile e divertente, ma contribuisce in modo determinante alla crescita economica. Vi rende più ricchi”.

Abbiamo il più alto numero di non utenti di Internet: 23 milioni. Come convincerli?
“Credo che usare la televisone pubblica sia l’unica strada. Come ha fatto la Bbc nel Regno Unito, serve la tv per contribuire al cambio di paradigma culturale necessario ad abbracciare consapevolmente il digitale. Le persone che guidano la Rai lo hanno capito che hanno un obbligo civile di svolgere questa missione?”.

Venerdì il consiglio dei ministri approva finalmente il Foia, il Freedom of Information Act che consentirà a tutti i cittadini di ottenere informazioni e dati dalla pubblica amministrazione: è una svolta?
“Dipende. Può esserlo. Gli Stati Uniti hanno un Foia molto efficace, il Regno Unito lo sta indebolendo. Dovete fare un Foia vero, con poche scuse per negare i dati ai cittadini”.

La Camera dei deputati ha approvato all’unanimità un Bill of Rights di Internet che però per ora è solo un insieme di raccomandazioni. Serve davvero?
“Sì, in tutti i paesi serve stabilire un insieme di principi sulla vita digitale. Ma poi è fondamentale che il governo li metta in pratica”.

Lei da oggi è testimonial di un grande operatore telefonico e delle rete: come si concilia con le sue battaglie in difesa della neutralità della rete che gli operatori invece contestano per fare più profitti?
“Ne ho parlato con l’amministratore delegato di Tim, Marco Patuano, e posso dire di averlo trovato aperto sul tema. Ma è una questione che riguarda tutti gli utenti, ciascuno di noi deve impegnarsi su questo”.

In occasione del suo 60esimo compleanno le hanno dedicato una grande statua in bronzo: a parte i dittatori credo

che sia l’unico essere vivente ad averne una. Come lo vive?
“Le dico solo che preferisco non guardarla”.

È immortalato con un zainetto in spalla mentre cammina.
“Perché la mia missione non è finita”.

 

Fonte [La Repubblica]

I 10 film più scaricati (illegalmente) dalla rete – di Federico Bagnoli Rossi -

PUBBLICATO IL  gennaio 18 -  Cinema, News, Web

Un altro anno si è concluso sia per l’industria audiovisiva che per il mercato illecito. Tra le diverse classifiche che vengono stilate regolarmente a fine dicembre c’è anchequella dei 10 film più scaricati illecitamente dal web. I numeri sono sempre impressionanti, a dimostrazione di come si tratti di un fenomeno sul quale l’attenzione deve rimanere alta. Quest’anno sono addirittura in netta crescita, se si considera che il film più scaricato dello scorso anno aveva fatto registrare circa 30 milioni di download, cifra superata oggi da tutti i primi 10 in classifica. In più, come sempre, queste classifiche si riferiscono solamente ad alcune tipologie di sfruttamenti illeciti. Qualora diventasse possibile misurare ad esempio anche le visioni in streaming, i numeri sarebbero sicuramente di ben altra portata.

Il mercato illecito, solo in Italia, sottrae centinaia di milioni di euro alla filiera, senza contare il danno all’erario e a tutte le imprese del settore in termini occupazionali e di investimento. Ovviamente in classifica non mancano i grandi blockbuster dell’anno appena trascorso: anche qui ci sono alcuni dei film più conosciuti come Furious 7,Avengers: Age of Ultron e Jurassic World.

A guidare la Top 10, con quasi 46 milioni di download, c’è però Interstellar, film uscito nel 2014 che ha avuto una “coda” molto lunga evidentemente anche nel mercato illecito. Più preoccupante il successo dei film “family”, come i prodotti di animazione Minions e Inside Out. Il risultato, oltre a rischiare di rendere sempre più “accettabile” il download illecito di film, è che per le nuove generazioni il luogo elettivo per vivere esperienze cinematografiche di questo tipo sia sempre di più il tablet, smartphone, pc di casa. Si tratta di un fenomeno che abbiamo già avuto modo di approfondire sia con la ricerca FAPAV/IPSOS del 2009 che attraverso lo studiocondotto in collaborazione con l’associaciazione LIBERA.

Le attività realizzate ci hanno infatti dimostrato come la percezione del reato sia purtroppo cambiata tra i più giovani, così come le emozioni e l’importanza di assistere alla visione di un film. Per questo motivo riteniamo sempre più necessarie le iniziative di educazione alla legalità che da tempo come Federazione sosteniamo e che nel 2016 andremo ad incrementare.

Come FAPAV, assieme ad ANICA, MPA e UNIVIDEO, abbiamo aderito al progettoEMCA “Rispettiamo la creatività” e saremo pertanto presenti nelle scuole con un apposito kit indirizzato ai giovanissimi. Si tratta di un progetto capillare che ci permetterà di interagire con gli studenti in 12 regioni italiane nelle quali realizzeremo progetti educativi e laboratori sul tema della creatività e della Proprietà Intellettuale.

Con la Legge sulla Buona Scuola è stata introdotta una norma importante, che abbiamo sostenuto e condiviso, con un emendamento del Pd (a prima firma dell’On. Roberto Rampi) tramite il quale l’alfabetizzazione al “cinema” è stata espressamente inserita tra gli obiettivi formativi prioritari delle scuole. È auspicabile che le amministrazioni centrali competenti, MIUR e MiBACT in primis, possano dare concreta attuazione a questo principio, sviluppando progetti ad hoc per formare (e sensibilizzare) il pubblico di domani anche in relazione ai temi del rispetto e del valore dell’opera audiovisiva, dalla cui tutela discendono le capacità di sviluppo e promozione di nuovi film e nuova creatività.

È nostro desiderio ricordare agli studenti che, dalla sala in poi, non esiste altro posto dove ad esempio poter condividere le emozioni della saga di Star Wars o le risate dell’ultimo film di Checco Zalone. Nell’anno appena iniziato usciranno tantissimi film, italiani e stranieri, che ci riporteranno davanti a un grande schermo in una sala buia, e che speriamo, come capitato a noi, possano far innamorare anche i giovanissimi di questo mondo che veicola sogni e passioni.

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Fonte [Huffpost]

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