LA REPUBBLICA del 4 ottobre 2011
Le immagini dell´esercito di ragazzini fermati sul Ponte di Brooklyn fanno sussultare. Le facce imberbi, i capelli lunghi, perfino l´abbigliamento rimandano ai loro padri e madri, magari nonni, che occupavano i campus quasi mezzo secolo fa. Nei telegiornali il bianco e nero ha ceduto il passo al colore, ma il cortocircuito antropologico è così evidente da costringerci a domandarci se il tempo è davvero passato. È una sensazione sospesa tra il compiacimento (niente gratifica i genitori più che riconoscersi nei figli) e il malessere, perché la percezione di vivere un tempo bloccato, per noi occidentali, è sempre più frequente. E basta avere occhi e orecchie per capire che il potere contro il quale si mobilitano quei ragazzi è ancora più distante, ancora più escludente di quello che fu scosso dalle rivolte degli anni Sessanta. Ora c´è un presidente afroamericano, i costumi si sono molto liberalizzati, i diritti estesi: ma la struttura oligarchica dell´economia si è, se possibile, radicalizzata, e il sospetto che il destino di tutti sia determinato da pochissimi comitati d´affari è quasi una certezza. I concetti di giustizia e ingiustizia sono stati nel frattempo rivoltati, manipolati, ridefiniti molte e molte volte, ideologie sono morte, idee cambiate. Ma poiché è sempre l´ingiustizia a mettere le ali ai piedi ai cortei, dobbiamo dedurne che l´ingiustizia aveva perduto, molti anni fa, qualche battaglia, ma infine ha vinto la guerra. Si riparte daccapo, dunque.
LA REPUBBLICA del 21 ottobre 2011
Silvio Berlusconi ha detto ieri pomeriggio: «L´acronimo Pdl non comunica niente, non emoziona, non commuove». Uno ne prende atto e pensa: non vorrei essere nei panni di quel poveretto che ha inventato il Pdl. Adesso gli faranno un mazzo così. Pochi istanti dopo – giusto il tempo di rimettere in asse il cervello, operazione non facile e non immediata per un italiano di oggidì – torna in mente che è stato lui, Silvio Berlusconi, l´inventore di quell´acronimo che, parole sue, «non comunica niente, non emoziona, non commuove». E così, sempre cercando di rimanere aggrappati all´esile filo della logica, si cerca a tentoni una spiegazione. Si dà del pirla per far ridere gli amici? Quando decise il nome Pdl era sotto ipnosi? Venne rapito da bambino dagli alieni che lo usano come cavia per un raffinato esperimento politico, conquistare il pianeta Terra dicendo solo cazzate? Crede di non essere Silvio Berlusconi? Crede di esserlo stato, ma solo per alcuni periodi? Crede di esserlo così intensamente da potersi incarnare in più individui, tutti di così spiccata personalità da potersi dare del cretino a vicenda? È fuggito ai Caraibi già da parecchi mesi, e al suo posto ha lasciato un ologramma fuori controllo? Beve?
LA REPUBBLICA del 24 settembre 2011
Chi ritiene che "la politica non serve a niente", che "i politici sono tutti uguali", e come massimo sforzo di elaborazione critica arriva a individuare una imprecisata e generica "casta" come fonte di ogni disgrazia, dovrebbe concedersi una piccola riflessione sugli ultimi dieci anni di storia sarda, e dunque di politica sarda. Tra le politiche regionali vigenti (centrodestra) e quelle precedenti (centrosinistra, nella particolare fattispecie della Giunta Soru), la differenza è abissale. Così abissale da generare due Sardegne, diverse e inconfondibili: questa di adesso edificabile quasi fino alla riva del mare, l´altra che voleva mantenere integre le sue coste. Questa a disposizione del cemento, l´altra del paesaggio. Questa in offerta agli speculatori del continente e ai loro sodali locali, l´altra che cercava di indovinare come sarebbe (o come sarebbe stata) una Sardegna sarda. So di schematizzare (la lettura degli articoli di Antonio Cianciullo e Giovanni Valentini, su Repubblica di ieri, poteva darvi un´idea più completa). Ma nella sostanza, di questo si tratta: la sconfitta di Soru e la vittoria di un prestanome di Berlusconi ha determinato, per quella meravigliosa isola e il suo popolo, un cambio di destinazione che è anche un cambio di destino. La politica non conta? Tutti i politici sono uguali?
LA REPUBBLICA del 25 ottobre 2011
Certo che duole, la risatina franco-tedesca di scherno all´indirizzo del nostro (ridicolo) capo del governo. Ma ce la siamo meritata, no? Come italiani, voglio dire, come comunità di persone che non è stata in grado, in quasi vent´anni, prima di evitare e poi di far cessare una tragica farsa che si configurava esattamente tale già in partenza, con tutto quel cerone, quelle promesse assurde, quelle smargiassate da guitto, quella ricchezza smodata, quel reclutamento di mediocri purché obbedienti. E se per questo fallimento storico portiamo tutti almeno una briciola di colpa, l´onorevole Casini, che oggi fa le sue rimostranze da italiano offeso e reclama maggiore rispetto per il nostro Paese, ha invece colpe grandi come una montagna. Insieme a coloro che per anni hanno appoggiato Berlusconi per trarne vantaggi politici e visibilità personale. Non bisognava essere dei geni, e neanche essere di sinistra, per intuire il calibro di quell´uomo e la precarietà di quell´avventura. Se oggi il mondo ride di noi, l´onorevole Casini e l´intero novero degli alleati di Berlusconi, per primi i tanti confindustriali oggi preoccupati ma ieri plaudenti, devono considerarsi, a buon diritto, cointestatari di quelle risate. Ne hanno il diritto, se le sono conquistate sul campo.
LA REPUBBLICA del 6 ottobre 2011
Con il meraviglioso titolo di prima pagina "Silvio come Amanda", ieri il quotidiano Libero, non so quanto consapevolmente, ha chiuso definitivamente un cerchio. Dentro quel cerchio la politica è ingoiata, tutta intera, da una rappresentazione popolare insieme puerile e buffa, e la realtà è appena il remoto pretesto per fornire un canovaccio ai pupazzi che hanno sostituito le persone. "Silvio" e "Amanda", qualora fossero davvero il signor Silvio Berlusconi e la signorina Amanda Knox, ovviamente c´entrano niente l´uno con l´altra. Ma essendo diventati due giocattoli mediatici, Silvio e Amanda possono ben incrociare i loro destini sullo stesso scaffale, come il soldatino di piombo e la ballerina del carillon. Qualcuno cominciò, anni fa, a chiamarli tutti, buoni e cattivi, per nome o per nomignolo (Silvio, Amanda, Sarkò, Carlà, Olindo, Rosa, forse il prototipo fu Gorby). In sintonia perfetta con il processo di trasformazione dei cittadini in consumatori, degli adulti in bambini, dell´opinione pubblica in pubblico con poche opinioni, ma in perenne fibrillazione emotiva. Tutti quei pupazzi, come nei veri giochi infantili, sono lì apposta per essere vezzeggiati oppure fatti a pezzi, coccolati o dimenticati in fondo a un baule. Per sapere la fine di "Silvio" è inutile cianciare di piazza Loreto, bisognerebbe rivedere Toy Story.
LA REPUBBLICA del 26 ottobre 2011
Nonostante gli sforzi dei media di mantenere sempre alti i toni, spasmodiche le attese, storici gli eventi, ieri l´interminabile agonia del governo risultava più mesta che drammatica. Una giornata piovosa quasi in tutta Italia, lo sgocciolio soporifero sui vetri delle case che si confondeva con il borbottio delle dichiarazioni video, tutto o quasi a bassa voce e a capo chino, compresi i soliti vaffanculo di Bossi che risuonavano familiari, quasi affettuosi. Macchine scure che entrano e escono dai palazzi e intorno la normalità tetragona di Roma che tutto assorbe e tutto dimentica, e a volte appare odiosamente cinica e a volte saggia, quasi salubre nella sua bimillenaria pratica di sopravvivenza. La verità è che non è umano restare quasi vent´anni appesi alle parole, alle mosse, alle gesta di un signore che ha cercato – con un certo successo, va detto – di giustapporre le proprie sorti a quelle di un intero popolo. Alla lunga all´ira e ai sentimenti forti subentra una stremata sazietà, e infine la tanto attesa e agognata e temuta caduta di Berlusconi finirà per assomigliare, più che al crepuscolo degli dei, al fine-corsa di un qualunque governo democristiano di qualunque precedente epoca. Da parecchio tempo, del resto, di lui si parla non più come di un uomo pericoloso, ma come di un uomo noioso.
LA REPUBBLICA del 7 ottobre 2011
Non riesco a credere che sia vera, ma non posso escludere che sia falsa, la notizia secondo la quale Silvio Berlusconi vorrebbe cambiare nome al Pdl «perché si è reso conto che la sigla Pdl perde consensi nei sondaggi» (la frase, testuale, è tratta da un giornale radio Rai di ieri, in genere piuttosto zelante con il premier). Credo che neanche nei test sugli scimpanzé sia mai stata adottata una logica così offensiva per la cavia. Il test si svolgerebbe più o meno così. L´istruttore porge allo scimpanzé depresso la solita mela, ma gli dice con trascinante giovialità: da oggi, amico mio, cambia tutto, da oggi abbiamo la pera! Lui la guarda, gli sembra pur sempre una mela, l´annusa e l´odore è di mela, la assaggia e il sapore è di mela, ma il sorriso e l´entusiasmo dell´istruttore sono così travolgenti che il buon quadrumane si convince e manda giù la mela pensando, da brava bestia suggestionabile, "buona pera! viva la pera!". Ora, è pur vero che Berlusconi ebbe a dire, nei suoi lontani anni ruggenti, che «il pubblico è un bambino di otto anni». Ma non solo nessun bambino di otto anni, anche nessuno scimpanzé potrebbe partecipare a un esperimento del genere senza fare il gesto dell´ombrello all´istruttore. Forse passando dagli scimpanzé ai protozoi,
l´esperimento potrebbe avere successo. Ma per quanti protozoi vadano alle urne, basterebbero a vincere?
LA REPUBBLICA del 27 ottobre 2011
Davvero illuminante lo studio di due ricercatori di Cambridge sulla miopia, in aumento soprattutto nel mondo ricco. Dipenderebbe dal minor numero di ore trascorse all´aria aperta, con conseguente restrizione del campo visivo e peggiore qualità della luce artificiale rispetto a quella naturale. Così, quando diciamo che una catastrofe come quella occorsa a mezza Liguria è causata dalla miopia dell´uomo, diciamo una verità assai meno metaforica di quanto pensiamo. Siamo sempre più miopi anche perché non sappiamo più guardare il mondo e misurarlo davvero. Dice Marco Paolini che l´Italia, per una vera e propria turba della personalità, è un Paese di montagna convinto di essere un Paese di pianura, e anche questa non è una metafora: oltre il settanta per cento del nostro territorio è scosceso, ondulato o ripido, ma facciamo finta che non sia così. Ripulire un fosso e impedire che si otturi, mantenere pervie e sorvegliate le vie d´acqua, far respirare i boschi perché siano sani e permeabili, non cementificare da ingordi e da pazzi quali siamo, tutto questo equivarrebbe alla cura del nostro paese e di noi stessi. Ma non abbiamo più cura perché non abbiamo più sguardo, se non per le videate e i tabulati che ci scorrono a un palmo dal naso, mentre fuori vita e morte giocano la loro partita considerandoci, giustamente, appena un dettaglio.
LA REPUBBLICA del 12 ottobre 2011
Credo sia da escludere che Silvio Berlusconi rimanga avvinghiato al suo traballante potere per pura tigna, come un politicante qualunque. Una persona che concepisce se stesso come il migliore, l’indispensabile, l’invidiabile, non accetterebbe mai di sentirsi appena appena sopportato, come una vecchia star sul viale del tramonto. Lo pensasse anche solo per un secondo, se ne andrebbe in una delle sue magioni tropicali a fare il brillante con le ragazzine. No, se resta ostinatamente in sella è perché, evidentemente, vede se stesso ancora e sempre come il migliore, l’indispensabile, l’invidiabile. Per lui nulla è cambiato. Non sente i fischi, e se li sente li attribuisce alle manovre organizzate di consorterie nemiche. Non coglie l’imbarazzo e lo spregio della comunità politica mondiale, ché sono tutte voci montate ad arte dalla stampa comunista. Non vede la crescente insoddisfazione dei suoi, le infedeltà patenti o latenti, perché gli pare inverosimile che qualcuno non lo ami. Per non imputargliele tutte, va detto che è difficile per chiunque cogliere il proprio declino, e accettarlo: un classico (triste) dello sport è il campione che si ostina a salire sul ring anche quando non ce la fa più. Nel suo caso, c’è una difficoltà in più: avendo comperato il ring, gli riesce ancora più difficile capire perché mai dovrebbe scenderne.
LA REPUBBLICA del 4 agosto 2011
Le voci sull´"inevitabile passo indietro" di Giulio Tremonti, che solo un paio di giorni fa erano un coro, già cominciano a diradarsi. Il conto alla rovescia che conduce all´eclissi politica di Berlusconi, iniziato dopo il tracollo elettorale di primavera, non sembra avere fretta di arrivare al suo esito. Scandali, processi, richieste di autorizzazione a procedere, dileggio internazionale, cadute parlamentari, figure ridicole come quella degli pseudoministeri a Monza, niente sembra scalfire un potere talmente malconcio e screditato che ogni nuova ferita subito si confonde e scompare nel dedalo delle precedenti. Basti, tra tutte, la parabola esemplare dell´ex ministro Scajola, che non anni addietro, ma nel corso di questa stessa legislatura (maggio 2010), parve politicamente morto e sepolto, dopo il disdoro che gli era caduto addosso a causa del clamoroso scandalo dell´appartamento romano "pagato a sua insaputa" da altri. Beh, poco più di un anno dopo Scajola è riverito e influente capo-corrente del Pdl. La sua carriera politica è in pieno e florido corso, e non a sua insaputa. I giornali lo intervistano come autorevole leader nazionale, certamente in lizza per orientare i destini del centrodestra. Più che dell´immoralità, in questo paese bisognerebbe discutere dell´immortalità.