LA REPUBBLICA del 24 ottobre 2012
Il prefetto di Napoli è stato subissato da una tale quantità di critiche e sberleffi (meritati) che si esita a infierire. Ma c’è un punto, potentemente politico, che merita una ulteriore riflessione. Il prefetto non sa che “signore” (e ovviamente “signora”) è molto di più di prefetto, eccellenza, commenda-tore, cavaliere, dottore. Più di signore – che vuol dire Sire, ed è il titolo onorifico di Dio – non esiste nulla. E mano a mano che un appellativo così assoluto diventa appellativo di tutti, finalmente ciascuno diventa signore di se stesso: è la democrazia. Il prefetto De Martino ha parlato nel nome di quell’inguaribile notabilato meridionale – e più in generale di quella inguaribile piccola borghesia italiana – che vive di titoli, onoreficenze, diplomi da appendere dietro la scrivania, perché non è mai stata contagiata dal virus liberatorio della con-cittadinanza. Quel virus, che la Rivoluzione Francese tentò di esportare quasi ovunque, nel nostro povero Sud morì infilzato sui forconi della Santa Fede, ferale alleanza tra plebi servili e baronie neghittose, con la benedizione del Papato. Le conseguenze le paghiamo ancora: abbiamo molti parrucconi, pochissimi signori.
LA REPUBBLICA del 23 gennaio 2013
Per capire quanto la politica abbia (lei per prima) perduto ogni stima di se stessa, si consideri la vicenda della ricandidatura nel Pdl di Razzi e Scilipoti. I due, ex dipietristi passati al fronte berlusconiano in cambio di un piatto di lenticchie (molte lenticchie), sono il simbolo vivente della politica mercenaria. L’eloquio sgrammaticato e compiaciuto, e i tratti umani da commedia dell’arte, hanno provveduto a farne, specie Scilipoti (ma Razzi non ha demeritato) due macchiette mediatiche, derise e malviste non solo dal fronte politico “tradito”, ma anche dai nuovi compagni: molti nel Pdl sono in rivolta contro le loro candidature. Erano impresentabili, Razzi e Scilipoti? Certo che lo erano. Neanche il partito più sgangherato può desiderare di farsi rappresentare da personaggi siffatti. Ma poiché la politica ha delegato al solo criterio giudiziario ciò che lei stessa non è più in grado di stabilire, e poiché i due non hanno condanne, ecco che il vaglio burocratico-giudiziario li lascia passare indenni. Come se la politica fosse del tutto sprovvista di un’etica propria, incapace di avere tutela di se stessa, rispetto di se stessa.
LA REPUBBLICA del 19 ottobre 2012
Comunque la si pensi, la sortita di Massimo D’Alema (“e va bene, me ne vado. Ma solo se vince Bersani”) è un colpo geniale. Che sia l’ultimo, perfido machiavellismo di un leader detronizzato e vendicativo, oppure la mossa d’orgoglio di un vecchio capo che vuole salvare il suo partito dai Barbari, è una sortita che ribalta la scacchiera così come Matteo Renzi l’aveva fin qui allestita. Suscita diffidenza l’idea dalemiana, più volte ribadita, che la politica sia soprattutto una partita a scacchi. L’eccessiva fiducia nella tattica (specie nella propria) può anche portare a infilarsi nell’imbuto della Bicamerale, e far morire per asfissia, insieme ai propri calcoli personali, le speranze di una intera stagione politica. Ma in questo caso l’artifizio tattico è così spiazzante, e così perfetto, da suscitare l’applauso dell’intero stadio. Fossi nella curva renziana, applaudirei comunque, si fa bella figura e si dimostra di avere capito la lezione: puntare troppo sulla rottamazione non rischia di dare troppa importanza, dunque troppo potere, ai rottamandi?
LA REPUBBLICA del 3 febbraio 2013
Smentire di essere massone, quando qualcuno dice che lo sei, è quasi un riflesso pavloviano. Giusto ieri due autorevoli persone hanno scritto a questo giornale per dirlo, che non lo sono. E se lo dicono, è certamente vero. Rimane — almeno per me — il mistero di un’associazione che ha nomea di essere potentissima, ma alla quale, almeno qui in Italia, nessuno rivendica di essere iscritto; eccezion fatta per qualche anziano professore di provincia autore di volumi ponderosi e noiosissimi sulla storia della massoneria nella sua città. La massoneria è dunque tra le cose che, dopo una certa età, ci si rassegna a non capire (nel mio caso, tra le tante: la massoneria, il jazz e James Joyce). Le si attribuiscono poteri smisurati e mosse decisive; ma è curioso che nessun suo membro — vanitosi come siamo noi maschi — si vanti mai in pubblico di quei poteri e di quelle mosse. La celebre battuta di Groucho Marx, «non accetterei mai di iscrivermi a un club che abbia tra i suoi soci uno come me», nel caso della massoneria va sostanzialmente riformata: «Non capisco perché dovrei fare parte di un club che ha tra i suoi soci solo persone che negano di farne parte».
LA REPUBBLICA del 25 ottobre 2012
Su Claudio Scajola c’è da dire una cosa soltanto: è letteralmente incredibile che ancora faccia politica attiva dopo l’indimenticabile vicenda della casa romana pagata “a sua insaputa”. Da questa considerazione ne discende un’altra. Forse ancora più grave. Questa: che una classe dirigente incapace di mettere alla porta persone così compromesse è destinata a essere travolta, prima o poi, da un’onda feroce e indiscriminata, che nella foga confonderà – e già confonde adesso – meriti e demeriti, colpevoli e innocenti. In questo senso c’è un nesso fatale tra il caso Scajola e il caso Melandri: la nomina di quest’ultima a direttore del Maxxi suscita ostilità a prescindere, in quanto esponente politica ed ex ministro, senza che sue eventuali competenze vengano tenute in alcun conto. Paga (e altri pagheranno dopo di lei) l’incapacità di un intero ambiente che non ha saputo emendarsi, si è chiuso a riccio, si è tenuto stretto i suoi furbi, i suoi ladri, i suoi venduti, con il risultato di godere, oggi, di una impopolarità travolgente. Gli umori di massa non sanno fare troppi distinguo. Doveva farli, quei distinguo, la classe dirigente. Ora è troppo tardi.
LA REPUBBLICA del 2 febbraio 2013
In bocca a Mario Monti, la battuta sulla data di nascita del Pd (che il professore farebbe coincidere con quella del Partito Comunista d’Italia, 1921) suona davvero incongrua. Se l’intenzione è accusare la sinistra di scarsa contemporaneità, viene spontaneo far notare che l’aura severamente contabile del professore rimanda dritti alla Destra storica e alla borghesia ottocentesca (volendo esser maligni, dunque, anche ai cannoni di Bava Beccaris), e non balza certo all’occhio per la sua verve scapigliata. Se invece l’idea era rinfacciare alla sinistra di ogni epoca e di ogni landa i suoi lombi “comunisti”, beh quello non è un argomento buono per l’elettorato centrista e moderato di Monti, e può fare colpo, piuttosto, sulla piccola borghesia reazionaria e non proprio coltissima che adora il sedicente Silvio. Il quale avrebbe volentieri rubato a Monti la battuta sulla data di nascita del Pcd’I-Pci-Pidiesse- Diesse-Pidì, se solo si raccapezzasse con le date: il 1921, per Berlusconi, è solo un anno come gli altri, un numero qualunque nella confusa nebulosa dei secoli e dei millenni che hanno preceduto la sua discesa in campo.
LA REPUBBLICA del 20 dicembre 2012
Se un macellaio vi vende carne marcia, o un falegname vi consegna una sedia con le gambe rotte, non c’è cavillo giuridico che possa salvarli dall’obbligo di risarcimento. Perfino i medici sono chiamati a rispondere di eventuali lesioni dovute a cure sbagliate o interventi maldestri. La sentenza di Milano che riconosce responsabili quattro banche per avere investito il denaro del Comune nei famosi “derivati” — l’equivalente finanziario della carne marcia e della sedia con le gambe rotte — è dunque storica perché “laicizza”, finalmente, l’idea stessa che abbiamo del sistema bancario, sconsigliando, per il futuro, la classica definizione di “santuari della finanza”. Se è vero che esiste un margine di rischio (ogni investitore è tenuto a saperlo), è anche vero che le banche, negli anni precedenti il crac del 2008 e la paurosa crisi susseguente, hanno non solo accettato di trattare robaccia dal rendimento dopato e dalle basi inconsistenti; ma hanno – smerciando quella robaccia a piene mani – contribuito a renderla normale, plausibile, consigliabile. Così come il mestiere del macellaio è controllare che la carne non sia guasta, non dovrebbe una banca, fatto salvo il margine di rischio, verificare che un prodotto finanziario non sia una bufala?
LA REPUBBLICA del 29 novembre 2012
Se Taranto fosse in America, attorno alle mura dell’Ilva in fiamme sfilerebbero i predicatori e i pazzi. Direbbero che l’incredibile coincidenza tra il danno prodotto dagli uomini e il colpo di maglio del tornado è segno di maledizione, di colpa da scontare, dell’ira di Dio. (E diciamolo: ieri, alla notizia, anche il più laico e disincantato di noi ha pensato che l’accanimento del destino su quel preciso luogo d’Italia ha qualcosa di sovrannaturale…). Ma non siamo in America. E, tra i tanti svantaggi, abbiamo il notevole vantaggio di essere meno suggestionabili da quelle panzane parabibliche. Si chiama sfiga (neologismo da bar per dire “sventura”) e come tale va considerata e affrontata, senza fare confusione tra il percorso accidentato degli uomini e la rotta delle tempeste. Sarebbe utile – ed è pure probabile – che il sommarsi delle disgrazie, piuttosto che abbattere quella gente, ne ravvivi l’orgoglio e ne aguzzi l’ingegno. Nessuna punizione, nemmeno quelle evocate o meglio invocate dagli apocalittici, è mai veramente meritata. Alla sfiga ci si ribella, la si prende a schiaffi e la si mette in fuga.
LA REPUBBLICA del 8 gennaio 2013
Si può anche capire che monsieur Depardieu, preoccupato per l’assottigliarsi delle sue scorte pantagrueliche di formaggio, porchette e damigiane di vino, sia irritato con il fisco del suo Paese. Si può capire, anche, che madame Bardot, addolorata per la malattia che affligge due anziane elefantesse dello zoo di Lione, sia furente con il servizio veterinario nazionale che non provvede a ricoverare i pachidermi in una clinica per lungodegenti, magari cacciando un paio di magrebini (Bardot, sposata a un fervente lepenista, non li sopporta). Quello che si capisce meno è che le due popolari star abbiano scelto come patria adottiva la Russia di Putin, paese che nel campo dei diritti arranca, e dista dalla Francia un paio di secoli. Probabile che chez Putin il fisco sia meno penalizzante (non per caso le immense ricchezze di quel Paese sono in mano a pochi oligarchi, che lo hanno depredato). Incerto il trattamento mutualistico riservato agli elefanti. Certissimi, invece, la galera per le Pussy Riot, la persecuzione (fino all’assassinio) delle voci libere come la Politkovskaja, lo spregio “virile” per gli omosessuali, il nazionalismo isterico, il neointegralismo religioso “di Stato”. Il putinismo di Depardieu e Bardot è così ridicolo da rivaleggiare con quello, già leggendario, dell’amico Silvio.
LA REPUBBLICA del 18 dicembre 2012
Mi chiedono perché non sono su Twitter, perché non sono su Facebook, e me lo chiedono con una vena di divertita commiserazione. Eppure la risposta è facile: già mi sembra di scrivere troppo, e dubito di saper governare come dovrei e vorrei le parole che produco. Non vedo perché dovrei ulteriormente inflazionare quel “me pubblico” che già sospetto inflazionato. Mi manca il silenzio, non ulteriori parole. Aggiungo che mi confonde, sui social-network, il non chiaro confine tra privato e pubblico, tra la ciancia amichevole, che è svagata e può concedersi anche la sbracatura, l’approssimazione, e la parola pubblica, che invece considero (per rispetto degli altri e di me stesso) impegnativa, meditata. Può darsi che io non abbia capito, come spesso mi rimproverano, “che cosa sono” i social- network, a cosa servono. Ma mi capita di leggere, poi, tweet di colleghi giornalisti, firme rispettate e di solida cultura, che mi paiono — scusate il latinismo — cazzate spaventose. Ne dico tante, ma a cena con gli amici, o al bar, insomma in privato. Se il network è “social”, è piazza, allora ogni tweet merita la stessa attenzione e fatica che si dedica a un editoriale. A casa si sta in ciabatte, ma per uscire si mettono le scarpe. Possibilmente pulite.