LA REPUBBLICA del 8 giugno 2012
È già stato scritto (con particolare efficacia da Curzio Maltese, ieri su questo giornale) che molti gesti di questa classe politica paiono ispirati da una vocazione invincibile all´autodistruzione. Vedi la ottusa lottizzazione (Pd, Pdl, Udc) dell´Agcom e il salvataggio puramente castale di un personaggio insalvabile come il senatore Di Gregorio: atti ovviamente destinati a ingrossare l´esercito dei non votanti, o dei votanti per chiunque si distingua, a qualunque titolo, dalla congregazione politicante. Se ne scrive, in genere, con rammarico, di questo prolungato tentativo di suicidio. Ma in giornate come quella di ieri, anche il rammarico rischia di cedere il passo a una più rassegnata e forse serena presa d´atto. E perfino quelli come me, che nel ruolo dei partiti hanno sempre creduto, che disprezzano il mugugno sordo e meschino del "sono tutti uguali", che hanno decisamente paura di una eventuale Italia post-partitica, si domandano fino a quando, e soprattutto perché, ci toccherà, nel nome della politica, difendere chi della politica ha fatto carne di porco. Se è servire la Repubblica e la Costituzione, ciò che davvero conta, perché mai una legislatura che prima produce e poi difende i Di Gregorio deve farci meno paura di un domani incerto?
LA REPUBBLICA del 29 giugno 2012
Se davvero – come scrive l’Espresso in edicola basandosi su un’inchiesta della magistratura – il “mariuolo” Mario Chiesa fosse diventato “referente della Lega Nord negli ospedali lombardi”, Tangentopoli potrebbe finalmente passare agli archivi come la beffa suprema ai danni di quegli italiani onesti che si illusero – ai tempi – di poter vivere in un paese a loro misura. E alla caduta di Craxi, e dei suoi “mariuoli”, manifestarono, accesero fiaccole, esultarono come per una seconda Liberazione. Pensate se, vent’anni fa, qualcuno avesse detto loro che Mario Chiesa, allora simbolo assoluto del malaffare politico, passata la buriana non solo sarebbe risorto politicamente, ma lo avrebbe fatto come “referente” d’affari della Lega, che allora era il partito della forca, del repulisti, delle zero garanzie per gli imputati. La Lega e i suoi giornalisti di riferimento usarono le parole, ai tempi, come le querce in Alabama, per appenderci la gente senza processo. Ora chiedono – per se stessi e per i loro amici – molte più garanzie di quante erano disposti a concedere agli imputati di vent’anni fa. Vedi come è diversa, la giustizia, vista sotto la quercia o sopra.
LA REPUBBLICA del 22 giugno 2012
A i meno giovani la vicenda di Pomigliano (con la Fiat costretta da una sentenza a non discriminare gli iscritti alla Fiom, il sindacato più combattivo) ricorda tempi duri e remoti. Quando in fabbrica gli operai comunisti erano destinati a una sorta di confino produttivo, e presentarsi al lavoro con l’Unità in tasca rendeva la vita davvero difficile. Ma era decisamente un’altra epoca: c’era l’Unione Sovietica, il Pci, Valletta, la Celere di Scelba, l’Italia era territorio di confine tra due imperi contrapposti, le tensioni politiche e sindacali erano il prodotto di un braccio di ferro ideologico, storico e geografico che a entrambe le parti pareva ferale. Non si capisce, nel 2012, come abbia fatto la Fiat di Marchionne, che ha già problemi non da poco da affrontare, a ficcarsi nello sgradevole budello dal quale ora deve sortire (malamente) su ordine della magistratura. Quando, pochi anni fa, il manager canadese arrivò a Torino, ogni sua mossa, parola, atteggiamento, a partire dal famoso maglione, parevano nuove, sinonimo di modernità, di una mentalità diversa. La vicenda di Pomigliano fa retrocedere la Fiat (non solo la sua immagine, anche la sua politica, anche la sua sostanza imprenditoriale) agli anni Cinquanta. Ne valeva la pena?
LA REPUBBLICA del 7 giugno 2012
A scansare gli ultimi dubbi (qualcuno ne avesse) circa la ventennale connection tra affari privati e potere politico che abbiamo chiamato “berlusconismo”, ecco che la pubblicità sulle reti Mediaset è calata del 18 per cento, e le azioni addirittura del 60. La crisi economica, certo. Ma la crisi c’era anche prima, quando Berlusconi governava, mentre il crollo del valore di Mediaset è successivo alla caduta del suo governo. Oggi di lui sorridiamo, delle sue buffe sortite con smentita incorporata, dei noiosi processi al suo codazzo di signorine, del suo declino così poco da caimano, così sdentato e così scontato. Ma sarà bene, almeno ogni tanto, fare memoria di che cosa siamo stati capaci di generare, come società italiana nel suo complesso, di quanti lo hanno votato più o meno entusiasti, di quanti lo rivoterebbero. Di quanti, ancora oggi, giudicano l’antiberlusconismo un pretestuoso, maniacale appigliarsi a formalità, a cavilli giuridici, piuttosto che – come è stato – un tenace e quasi disperato appello all’onesta realtà contro l’illusionismo truffaldino. Grazie, a questo proposito, a Barbara Spinelli per il formidabile racconto (Repubblica di ieri) della non-ricostruzione dell’Aquila. La “new-town” al posto della polis: la manomissione della civiltà italiana, o di quello che ne rimane.
LA REPUBBLICA del 3 luglio 2012
Si capisce che non è al sindaco Alemanno che si deve chiedere ragione della svastica al Circo Massimo, e in generale del rosario di svastiche, fasci littori e croci celtiche che impavesano da molti anni l’Olimpico, e dell’onnipresente iconografia fascista (perfino nello stile grafico dei manifesti murali) che sborda un poco ovunque nella città visivamente più fascista d’Europa, dopo Latina. Diciamo che non è la persona giusta, il sindaco, per affrontare il fenomeno con qualche speranza di autorevolezza, perché ognuno ha la sua storia e non è che a cinquant’anni suonati Alemanno se ne possa inventare un’altra. Ma che il problema esista sarebbe ora di dirselo con franchezza, anche perché Roma, oltre a essere sede della Roma e della Lazio, è anche e non secondariamente la capitale d’Italia, a Roma ci sono il Quirinale, il palazzo del governo, le due Camere, un sacco di ministeri, e insomma che nutriti drappelli di nazisti, di picchiatori di omosessuali, di antisemiti si radunino oggi qui e domani là, sentendosi a casa loro come circoli dopolavoristi o cicloturisti, non è una cosa normalissima. Non è colpa di Alemanno, per carità. Ma qualcuno dovrà pure occuparsene. In sua vece.
LA REPUBBLICA del 21 giugno 2012
C’è davvero una “incompatibilità tra le regole dominanti dell’economia e le regole, ad essa sottomesse, della democrazia”, come si chiedeva ieri su questo giornale Gad Lerner riflettendo sulla situazione greca? Guardate che la domanda, specie se a porla non è un giovane rivoluzionario ma un maturo socialdemocratico come Lerner (e come me), è di quelle che fanno tremare le vene ai polsi. Perché se è vero, che le regole di questa economia sono monocratiche e sopraffattrici, prima o poi si tratterà di sovvertirle — o almeno correggerle radicalmente — prima che la democrazia ne esca definitivamente commissariata. E non sono le frange radicali, è la sinistra di massa, quella oramai incanutita nel quasi placido tran tran del parlamentarismo, delle elezioni, di un’alternanza che di alternativo ha davvero pochino, che si gioca il futuro se non sarà in grado di scuotersi. Il socialismo europeo, scrive ancora Lerner, rischia l’irrilevanza se si rassegna a considerare velleitaria una riforma democratica dell’architettura dell’Unione. Dato (quasi) per scontato che i socialisti non credono più nel socialismo, possiamo sperare che credano almeno nel primato della democrazia, e nella possibilità di sottomettere i famosi “mercati” ad essa, e non essa ai “mercati”? Vendola sappiamo già quello che pensa. Ma Bersani? Qui non serve la cavalleria. Serve la fanteria.
LA REPUBBLICA del 6 luglio 2012
La feroce determinazione con la quale i berlusconiani cercano di conservare il controllo della Rai non si spiega solo con i normali parametri della lotta per le poltrone. C’è un sovrappiù simbolico che è perfino imbarazzante dover ripetere: un forte complesso di inferiorità culturale che scatena nella destra italiana l’impulso violento a occupare per potere ciò che non è in grado di occupare per merito. La vera tragedia del berlusconismo morente, dopo quasi due decenni di purghe, censure e scorrettezze (la più scandalosa delle quali è avere imposto alla Rai uomini Mediaset, leali alla concorrenza anche se ritiravano la busta paga in viale Mazzini), è non essere stato capace di formare dirigenti, produttori, conduttori, artisti all’altezza degli odiati e cosiddetti “rossi”. Il centrodestra — con gli ovvi distinguo — ha avuto la sua piena espressione culturale ed estetica in Mediaset. Ma sapeva, sentiva, che molte trasmissioni e molti uomini della Rai facevano ombra, eccome, a quella cultura e a quell’estetica. Per questo la governanceberlusconiana alla Rai si è manifestata soprattutto in poche e dimenticate produzioni colate a picco, e nell’accanito boicottaggio di quello che, in Rai, funzionava bene. Non c’era bisogno di ordini superiori. Era un invincibile istinto: colpire chi è più bravo di te.
LA REPUBBLICA del 6 giugno 2012
Oggi i calciatori azzurri, in Polonia per gli Europei, andranno in visita ad Auschwitz. Non è una presenza scontata, per almeno due ragioni. La prima (profondamente rimossa nella nostra memoria nazionale) è che l’Italia è stata il principale alleato di Hitler e dunque il principale complice dello sterminio: chissà se qualcuno, nella nostra delegazione, avrà la volontà di spiegarlo a ragazzi di vent’anni comprensibilmente poco avvezzi alla riflessione storica. Il secondo è che il calcio, inteso come fenomeno popolare globale, è ormai da molti anni un micidiale incubatore dei razzismi vecchi e nuovi, e in specie dell’antisemitismo: gli stadi europei sono forse l’ultimo posto al mondo dove vengono tranquillamente esposte svastiche e croci celtiche, e il saluto romano (un brevetto italiano…) accomuna le curve nazional-fasciste di mezza europa. I calciatori hanno, in questo senso, responsabilità enormi. Di complicità (a volte cosciente, a volte no) con tifoserie razziste, e soprattutto di omissione di buon esempio. Il loro comportamento, le loro parole, il loro atteggiamento in campo (per esempio quando il pubblico insulta un “negro”) sono fondamentali. Lo sport è (anche) un potentissimo vettore di valori. La speranza è che questa mattina, ad Auschwitz, qualcosa scatti nella testa degli azzurri.
LA REPUBBLICA del 5 giungo 2012
Sento in un talk-show l’impressionante Sallusti definire Roberto Saviano “un ricco scrittore”, espressione che al pubblico che fa riferimento a Sallusti deve sembrare l’acme della corruttela morale. Pare di capire che la destra bastonatrice ( Giornale e Libero, per non far nomi) voglia indicare in Saviano il nuovo, odiato simbolo dei “radical chic”, il leader blandito “nei salotti che contano” dalle signore svenevoli e dagli orditori delle trame demo-pluto-massoniche. I toni e gli argomenti usati contro l’autore di Gomorrasono piuttosto spregevoli (anche se non raggiungono l’allucinata violenza toccata un mesetto fa da Giuliano Ferrara sul Foglioin uno degli articoli più ignobili della storia del giornalismo mondiale), ma la sostanza della campagna di stampa fa decisamente sorridere. Saviano può piacere o non piacere, ma con i radicalchic c’entra come i cavoli a merenda. È uno scrittore-soldato, che paga la sua guerra alla malavita conducendo una vita tremenda. Non è di sinistra, ha valori popolari molto simili a quelli di un meridionale tradizionalista non colluso e non servo. È un uomo libero e coraggioso. In un Paese munito di una destra decente (cioè legalitaria e repubblicana) sarebbe di destra. Dunque, non in questo Paese.
LA REPUBBLICA del 20 giugno 2012
Adesso che la Lega ha perduto gran parte del suo potere di ricatto, forse possiamo tornare a parlare, con sollievo, di alcune qualità del Nord senza sentirci complici di una cultura di strapaese. Per esempio: le candidature di Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi alla Rai (scelta felice dell’associazionismo, innescata dal passo indietro virtuoso di Bersani) sono una rivincita della Milano migliore, la Milano etica, democratica e “protestante” che si contrappone quasi naturalmente alla Roma peggiore, quella maneggiona, consociativa e curiale. Probabile che questo dato (due milanesi su due) sia sfuggito alle associazioni nazionali sollecitate a indicare due nomi per il Consiglio d’amministrazione più discusso d’Italia. Ma non c’è dubbio che a configurare il tasso (alto) di autonomia e di eticità di Colombo e Tobagi abbia contribuito assai la loro formazione nella Milano di cui sopra, la stessa di Ambrosoli, di Mani Pulite, di Tobagi padre. È strano, piuttosto, che il dato sfugga a una persona che a Milano ha lungamente lavorato, Tonino Di Pietro, che non riesce a vedere nell’indicazione di quei due nomi altro che una nuova e mutata forma di lottizzazione partitica. Dall’uomo che ha portato in Parlamento De Gregorio, Scilipoti e Razzi ci si aspetterebbe, sulle nomine di qualunque ordine e grado, maggiore prudenza nei giudizi.