LA REPUBBLICA del 24 ottobre 2012
Il prefetto di Napoli è stato subissato da una tale quantità di critiche e sberleffi (meritati) che si esita a infierire. Ma c’è un punto, potentemente politico, che merita una ulteriore riflessione. Il prefetto non sa che “signore” (e ovviamente “signora”) è molto di più di prefetto, eccellenza, commenda-tore, cavaliere, dottore. Più di signore – che vuol dire Sire, ed è il titolo onorifico di Dio – non esiste nulla. E mano a mano che un appellativo così assoluto diventa appellativo di tutti, finalmente ciascuno diventa signore di se stesso: è la democrazia. Il prefetto De Martino ha parlato nel nome di quell’inguaribile notabilato meridionale – e più in generale di quella inguaribile piccola borghesia italiana – che vive di titoli, onoreficenze, diplomi da appendere dietro la scrivania, perché non è mai stata contagiata dal virus liberatorio della con-cittadinanza. Quel virus, che la Rivoluzione Francese tentò di esportare quasi ovunque, nel nostro povero Sud morì infilzato sui forconi della Santa Fede, ferale alleanza tra plebi servili e baronie neghittose, con la benedizione del Papato. Le conseguenze le paghiamo ancora: abbiamo molti parrucconi, pochissimi signori.
LA REPUBBLICA del 16 dicembre 2012
“Se mi dicono che non posso più prendere un taxi o offrire un caffè al bar, io mi adeguo”, dice il consigliere regionale Bossetti (Lega Nord) al quale la Procura di Milano chiede conto di alcune pittoresche richieste di rimborso spese alla Regione. Come il collega di partito Toscani (cartucce da caccia, ostriche, cioccolata), come Renzo Bossi (videogiochi, sigarette, bibite), come la miracolata Minetti (creme per il viso, iPhone, cenette), come decine di altri colleghi, Bossetti sposa una linea di difesa tra l’amareggiato e l’offeso. Come se non capisse esattamente perché mai si scatena tutto questo casino “per un taxi e un caffè”. Naturalmente non si tratta di un taxi e di un caffè, ma di una lista pantagruelica e ridicola di spese voluttuarie il cui simbolo supremo sono le creme per il viso della Minetti (sì, gliele avete pagate voi con le vostre tasse). Ma anche fossero solo un taxi e un caffè, la cosa sbalorditiva è che non li sfiora nemmeno l’idea di pagarseli di tasca loro, il taxi e il caffè, come da una vita fanno le persone normali. Lei non ha idea, consigliere Bossetti, di quanti taxi e quanti caffè potrebbe ancora prendere liberamente (addirittura andando in taxi a prendere il caffè, o bevendo un caffè in taxi) se solo decidesse di mettere mano al portafogli. Il suo.
LA REPUBBLICA del 25 ottobre 2012
Su Claudio Scajola c’è da dire una cosa soltanto: è letteralmente incredibile che ancora faccia politica attiva dopo l’indimenticabile vicenda della casa romana pagata “a sua insaputa”. Da questa considerazione ne discende un’altra. Forse ancora più grave. Questa: che una classe dirigente incapace di mettere alla porta persone così compromesse è destinata a essere travolta, prima o poi, da un’onda feroce e indiscriminata, che nella foga confonderà – e già confonde adesso – meriti e demeriti, colpevoli e innocenti. In questo senso c’è un nesso fatale tra il caso Scajola e il caso Melandri: la nomina di quest’ultima a direttore del Maxxi suscita ostilità a prescindere, in quanto esponente politica ed ex ministro, senza che sue eventuali competenze vengano tenute in alcun conto. Paga (e altri pagheranno dopo di lei) l’incapacità di un intero ambiente che non ha saputo emendarsi, si è chiuso a riccio, si è tenuto stretto i suoi furbi, i suoi ladri, i suoi venduti, con il risultato di godere, oggi, di una impopolarità travolgente. Gli umori di massa non sanno fare troppi distinguo. Doveva farli, quei distinguo, la classe dirigente. Ora è troppo tardi.
LA REPUBBLICA del 26 settembre 2012
Ovviamente la galera, per chi insulta o diffama a mezzo stampa, è una pena sproporzionata, e sinistramente intimidatoria nei confronti di chi scrive sui giornali. Ma questo non alleggerisce di un grammo le responsabilità morali e sociali di chiunque usa pubblicamente le parole; anzi le aggrava, perché l’esercizio della libertà di opinione circonfonde i giornalisti di un’aura di intoccabilità (di tipo castale, visto che va di moda dirlo) della quale è vile approfittare. L’articolo scritto sotto pseudonimo sul Giornale nel 2007 (e imputato al direttore responsabile Sallusti) conteneva opinioni violente ma soprattutto divulgava notizie false (rimando, per ragioni di spazio, all’esauriente analisi che ne fa Alessandro Robecchi sul suo blog). Diffama più il suo autore che le sue vittime. È lo stesso genere di giornalismo che molti anni prima, diciamo così ai suoi gloriosi albori, arrivò a pubblicare su un quotidiano milanese della sera nome, cognome e indirizzo delle donne di Seveso che avevano deciso di abortire per timore degli effetti della diossina. Brillanti carriere sono nutrite anche di queste sconcezze. La legge, effettivamente, è uno strumento goffo e inadeguato per misurare certi abissi.
LA REPUBBLICA del 13 settembre 2012
Nel pittoresco caos sollevato dall´intervista rubata al grillino Favia, è passato in sottordine il metodo, e questo non vale. Non vale perché il metodo (un fuorionda mandato in onda) fa parte, eccome, del dibattito. Il dibattito è sulla crisi etica e funzionale della politica, a partire dalle sue forme di rappresentanza, non certo escluse le forme mediatiche. A me (l´ho scritto milioni di volte) il mito della democrazia diretta via web pare ingenuo, ridicolo e anche pericoloso, ma non è che un sistema mediatico (e un dibattito politico) fondato sui fuorionda mi appaia in alcun modo rassicurante o anche soltanto decente. In questo senso, come dare torto alla grillina Federica Salsa che, raggiunta al telefono da una giornalista di "Piazza Pulita", non credendo alle sue orecchie, le ha detto: «Ma come, mi chiedi una chiacchierata informale dopo che il tuo programma ha mandato in onda un fuorionda registrato di nascosto? ». Cerco di evitare accuratamente i talk-show perché ho paura (fisica) di imbattermi in Sallusti. Di qui in poi, cercherò di evitarli anche per la paura di dover commentare un fuorionda.
LA REPUBBLICA del 24 luglio 2012
Barak Obama – che un nome se lo è conquistato, eccome – non ha voluto pronunciare il nome del miserabile assassino di Denver. La condanna all’anonimato come punizione massima per chi è disposto a qualunque nefandezza pur di uscirne. Giusto. Così giusto che fa riflettere, per esteso, sull’equivoco esiziale che guasta i sogni della società massificata: la totale confusione tra fama e valore. Si ritiene che se non si è famosi non si esiste, non si vale, ma è un falso spaventoso, è il padre di tutti i falsi. Ci sono evidenti casi di famosi farabutti e di famosi imbecilli; e di persone il cui valore, anche grande, è conosciuto da pochi, e tra quei pochi loro stessi. Ho sentito Benigni, in Santa Croce a Firenze, a commento del canto Undicesimo, dire che il lavoro umano prosegue il lavoro di Dio. Ho pensato al “lavoro ben fatto” di Primo Levi, ai tanti (e sempre più rari) esempi di persone felici del loro fabbricare, creare, mettere ordine, disporre in giustezza le cose. Il loro valore è inestimabile, e non importa quanti lo sanno (lo sa Dio, direbbe il poeta). Se si riuscisse a fare capire questo – che il valore è più della fama – ai miliardi di anonimi e ai milioni di frustrati, ci sarebbe qualche pazzo infelice di meno, e qualche traccia in più della potenza umana.
LA REPUBBLICA del 4 settembre 2012
Finché siamo noi della sinistra incanutita, a borbottare contro la dittatura dei mercati finanziari, possiamo anche credere di star ripetendo le solite vecchie solfe, come ufficiali in congedo nel loro circolo polveroso. Ma quando è la signora Merkel a dire che i mercati finanziari «non sono al servizio del popolo perché negli ultimi cinque anni hanno consentito a poca gente di arricchirsi a spese della maggioranza”, aggiungendo che “non bisogna consentire ai mercati di distruggere i frutti del lavoro della gente”, beh, ci sentiamo un poco rinfrancati. Forse alcune delle fole novecentesche attorno alle quali ci siamo formati — per esempio che il lavoro degli esseri umani deve avere più valore della speculazione, per il semplice fatto che vale di più — andrebbero rivalutate, visto che seducono anche una valorosa scampata al comunismo della Ddr, nemicissima dell’economia pianificata e statalizzata, leader autorevole del liberismo applicato. Non per tartufismo, ma per evidente comodità tattica, di qui in poi potremmo sempre aggiungere ad ogni critica ai mercati finanziari una postilla invincibile: “Credete che l’abbia detto Nichi Vendola? Macché! L’ha detto la Merkel”.
LA REPUBBLICA del 23 agosto 2012
Il senso delle istituzioni non è mai mancato agli uomini dell’ex Pci. È una virtù, specie in un paese indisciplinato e anarcoide. Ma anche una virtù, se diventa un’ossessione, può mutare in malattia. Quando, per esempio, Luciano Violante denuncia “un attacco politico mediatico contro Napolitano e Monti” ad opera di Grillo, Di Pietro e il Fatto quotidiano, forse crede di smascherare una Grosse Koalition della cosiddetta antipolitica. Sta, invece, semplicemente denunciando l’esistenza, in ordine sparso, di un’opposizione politica e giornalistica. Un’ovvietà, insomma. L’opposizione, anche in clima di emergenza nazionale, qualcuno dovrà pure farla: specie se il governo in carica gode di una straripante maggioranza parlamentare e di una quasi intatta popolarità nonostante la durezza della sua politica economica. Un eccesso di “stringiamci a coorte”, con tanto di costante rimbrotto a chi non è d’accordo, rischia di assomigliare a una specie di maccartismo “a fin di bene”, che vede in ogni forma di opposizione, giusta o sbagliata poco importa, una vera e propria alienità agli interessi della Repubblica. Di lì all’accusa di “attività antipatriottiche”, il passo non è poi così lungo. Darsi una calmata è meglio.
LA REPUBBLICA del 5 settembre 2012
Se entrare nel merito aiuta a neutralizzare le urla, facciamolo. Ciò che meno condivido e meno capisco, nella cultura politica delle Cinque Stelle, è il terrore quasi superstizioso della politica come mestiere. Il mito del cittadino che si fa carico in proprio della cosa pubblica, cioè si autoelegge e poi si autodistrugge (massimo due mandati!) per non correre il rischio di divenire egli stesso parte della "casta", è suggestivo e perfino attraente, perché ravviva antichi sogni di democrazia diretta e di autogoverno. Ma ha un limite grave, e in questa fase storica gravissimo: ostacola la formazione di una nuova, vera classe dirigente, che non può nascere al di fuori di un percorso solidamente e direi duramente professionale (equo stipendio compreso). Che i meccanismi di selezione e ricambio della politica italiana siano decisamente inceppati è verissimo, e un Parlamento di nominati ne è la dimostrazione lampante. Ma una società già di suo precarizzata, che sta distruggendo i mestieri e le competenze, perché mai dovrebbe darsi una classe politica ugualmente precaria? Infine: ridurre i tempi di permanenza al potere riduce anche il rischio di disonestà? Il ladro, in così poco tempo, avrà solo più fretta di rubare. L´onesto, per un anno o per venti, servirà i suoi elettori con lo stesso rigore.
LA REPUBBLICA del 26 luglio 2012
Che i quaranta milioni di “prestito infruttuoso” versati da Berlusconi a Dell’Utri siano frutto di ricatto o di semplice benevolenza, è certamente cosa della massima importanza per la Procura di Palermo. Ma a me, e spero a qualche altro patetico moralista, la cifra pare oscena a prescindere. Non solo un operaio, neanche un professionista di successo si mette in tasca, in una intera vita, una cifra così smisuratamente superiore al valore del lavoro umano. No, il denaro non è lo sterco del demonio; ma è la misura del lavoro, del sudore e del talento, di quanto ognuno di noi sa e può fare per rendersi utile alla società. Perfino la munifica paga corrisposta alle ragazzuole di corte ha una qualche attinenza col lavoro, specialmente con il sudore. Ma quaranta milioni a un senatore della Repubblica, già lautamente stipendiato, già comodamente sistemato nei piani alti della società, come si giustificano? Quaranta milioni di “prestito infruttuoso”, se anche dovessero corrispondere a una regalia volontaria, sono la bestemmia di due asociali contro gli umili e gli onesti, ovviamente compresi gli sciagurati umili e i malaccorti onesti che hanno dato il loro voto a gente di questa risma.