LA REPUBBLICA del 19 dicembre 2012
Forte dei suoi 20.252 elettori alle primarie online (andranno in Parlamento persone che hanno avuto 90 preferenze, giusto i parenti e la cerchia degli amici più stretti), Beppe Grillo definisce “buffonarie” le imminenti primarie del Pd per scegliere i suoi candidati. In termini squisitamente matematici, è come se un criceto desse del nano a un elefante. In termini politici sarebbe interessante e utile capire in base a quali criteri logici, o etici, o dialettici, il sistema di selezione dei candidati adottato da Grillo (20.252 votanti alle sue primarie) sia migliore o più democratico o più rappresentativo o più efficiente di quello adottato dal Pd o da chiunque altro. Ma non lo sapremo mai, perché Grillo è uomo di sintesi (anche l’invettiva è una sintesi) ma non di analisi: e dunque se dice “Tizio è un cretino” e tu gli chiedi di spiegarti perché, la conversazione ha termine. Infine in termini umani – che perfino in politica, dopotutto, non sono così secondari – quello che colpisce, in Grillo, è la totale mancanza di magnanimità e di generosità nel giudicare chiunque non sia egli stesso, e qualunque atto o parola non gli appartenga. Lui ha ragione e gli altri torto, punto e basta. Fatte dagli altri, le primarie sono comunque merda. Fatte da lui (20.252 elettori), oro.
LA REPUBBLICA del 27 settembre 2012
Berlusconi e Dell’Utri stanno proprio invecchiando, e i loro avvocati pure. Pur di sottrarsi alla malvagia Procura di Palermo, con tutti quei piemme barbuti e comizianti, hanno brigato per far dirottare il loro processo (uno degli innumerevoli) su a Milano, proprio sulla scrivania di quella Ilda Boccassini che, almeno nell’immaginario popolare, sta a Berlusconi come Achab sta a Moby Dick, o se preferite come Topolino a Macchia Nera. Ma non potevano ingegnarsi di trovare una soluzione un poco meno rischiosa? Non so: dichiarare che tutti quei milioni sono stati trafugati da Dell’Utri su un atollo del Pacifico così da farsi giudicare dalla Procura di Bora Bora, notoriamente malleabile; fingersi pazzi e puntare all’infermità mentale (basterebbe che Dell’Utri dichiarasse al perito di possedere i diari autentici di Mussolini) ; simulare un week-end a Villa Certosa e poi fuggire in materassino, come Papillon. Tutte soluzioni più praticabili e realistiche, piuttosto che sperare di passare indenni dal vaglio dei giudici di Milano, che parlano poco ma lavorano duro.
LA REPUBBLICA del 29 novembre 2012
Se Taranto fosse in America, attorno alle mura dell’Ilva in fiamme sfilerebbero i predicatori e i pazzi. Direbbero che l’incredibile coincidenza tra il danno prodotto dagli uomini e il colpo di maglio del tornado è segno di maledizione, di colpa da scontare, dell’ira di Dio. (E diciamolo: ieri, alla notizia, anche il più laico e disincantato di noi ha pensato che l’accanimento del destino su quel preciso luogo d’Italia ha qualcosa di sovrannaturale…). Ma non siamo in America. E, tra i tanti svantaggi, abbiamo il notevole vantaggio di essere meno suggestionabili da quelle panzane parabibliche. Si chiama sfiga (neologismo da bar per dire “sventura”) e come tale va considerata e affrontata, senza fare confusione tra il percorso accidentato degli uomini e la rotta delle tempeste. Sarebbe utile – ed è pure probabile – che il sommarsi delle disgrazie, piuttosto che abbattere quella gente, ne ravvivi l’orgoglio e ne aguzzi l’ingegno. Nessuna punizione, nemmeno quelle evocate o meglio invocate dagli apocalittici, è mai veramente meritata. Alla sfiga ci si ribella, la si prende a schiaffi e la si mette in fuga.
LA REPUBBLICA del 20 dicembre 2012
Se un macellaio vi vende carne marcia, o un falegname vi consegna una sedia con le gambe rotte, non c’è cavillo giuridico che possa salvarli dall’obbligo di risarcimento. Perfino i medici sono chiamati a rispondere di eventuali lesioni dovute a cure sbagliate o interventi maldestri. La sentenza di Milano che riconosce responsabili quattro banche per avere investito il denaro del Comune nei famosi “derivati” — l’equivalente finanziario della carne marcia e della sedia con le gambe rotte — è dunque storica perché “laicizza”, finalmente, l’idea stessa che abbiamo del sistema bancario, sconsigliando, per il futuro, la classica definizione di “santuari della finanza”. Se è vero che esiste un margine di rischio (ogni investitore è tenuto a saperlo), è anche vero che le banche, negli anni precedenti il crac del 2008 e la paurosa crisi susseguente, hanno non solo accettato di trattare robaccia dal rendimento dopato e dalle basi inconsistenti; ma hanno – smerciando quella robaccia a piene mani – contribuito a renderla normale, plausibile, consigliabile. Così come il mestiere del macellaio è controllare che la carne non sia guasta, non dovrebbe una banca, fatto salvo il margine di rischio, verificare che un prodotto finanziario non sia una bufala?
LA REPUBBLICA del 3 ottobre 2012
La foto di Lele Mora che lavora in un campo soddisfa, di primo acchito, il facile piacere di vedere un ex privilegiato faticare come l’ultimo dei braccianti. Ma è questione di un attimo – il tempo di mettere davvero a fuoco quell’immagine – e si vede solo un uomo di una certa età che prova ad affidare a mani e braccia il compito di ridare un poco di senso, forse una regola, a un’esistenza travolta prima da una tempesta economica, poi dallo scandalo e dalla galera. Non ho nessuna simpatia per Mora, per il lavoro vacuo e cortigiano in cui eccelleva, per l’odiosa leggerezza con la quale ostentava le sue simpatie mussoliniane. Ma quella foto non può che generare rispetto. Rimanda a qualcosa che sappiamo (o intuiamo) riguardare tutti, indistintamente: nell’umiltà del lavoro manuale, e specialmente del lavoro agricolo, c’è una misura che dissolve molti inganni, e suggerisce la più ovvia, la più basica delle ripartenze: chinare la schiena. La fatica fisica è stata, per i nostri avi, una maledizione. Per molti regimi carcerari è una punizione. Per un evo ammalato di virtualità, potrebbe essere una guarigione.
LA REPUBBLICA del 30 novembre 2012
Conosco chi voterà Bersani perché preferisce la persona, ma spera che sia Renzi a vincere. E conosco chi voterà Renzi perché è attratto dall’energia dell’età e dal fascino della novità, ma ha il terrore che se vince il sindaco di Firenze non sarà “la vecchia nomenklatura” a essere rottamata, ma il prezioso Dna socialista e umanitarista che è il sale della sinistra passata, presente e futura, e che Bersani incarna. Poi c’è il mio amico G. che mi ha chiesto: “È grave se cerco di imbrogliare e vado a votare per tutti e due? ”. Mi tratta come se fossi un proboviro, ormai ho quasi l’età. La verità è che un eventuale ticket Bersani-Renzi (o Renzi-Bersani se fosse il sindaco di Firenze a vincere il ballottaggio) ricomporrebbe con buona approssimazione i connotati di una sinistra al tempo stesso dinamica e solida, vivace e attendibile, e alle politiche sarebbe quasi imbattibile. L’unico vero difetto delle primarie è che, per loro natura, minacciano di scomporre le energie di un’area politica, costringendole a elidersi. Bisognerebbe capire se i rispettivi “staff” (uno dei tanti virus aziendalisti che hanno contaminato la politica) sarebbero disposti, nel caso di un’intesa tra i due capi, a fare un passo indietro, riponendo nei bauli le armi improprie sfoderate per le primarie.
LA REPUBBLICA del 28 dicembre 2012
Un paio di vecchi autorevoli amici mi fanno sapere, a mezzo tra il sapiente e il gossiparo, che il prossimo governo sarà senza ombra di dubbio un Monti-Bersani o un Bersani-Monti. Non so se l’ipotesi, che circola con insistenza, penalizzi di più Bersani o Monti. Ma qualora si verificasse sarebbe l’ennesima controprova dell’anomalia italiana. Perché sarebbe un governo di destra-sinistra (o di sinistra-destra) nato con l’intenzione, ancora una volta emergenziale, di preservare la Repubblica, il suo bilancio, la sua dignità e i suoi vincoli europei dai cascami ripugnanti di un’epoca ripugnante, quella di Berlusconi. Se fossimo un paese normale, e normalmente dedito a compiere serenamente le sue scelte economiche e sociali, Monti sarebbe il capo del centrodestra e Bersani del centrosinistra, si affronterebbero a viso aperto, uno dei due andrebbe a Palazzo Chigi e tutti, vincitori e sconfitti, il giorno dopo andrebbero a dormire sereni. Ma se fossimo un paese normale Berlusconi avrebbe avuto lo stesso ruolo e lo stesso peso di Le Pen in Francia: un energumeno ai margini della democrazia.
LA REPUBBLICA del 4 ottobre 2012
Il pazzesco scandalo di Tributi Italia è forse il peggiore e il più indigesto, perché ci illumina sulla natura sociale – ben prima che politica – della corruzione italiana. Si tratta, secondo le accuse, di imprenditori privati (non di onorevoli, o consiglieri regionali, o membri a qualunque titolo della “casta”) che riescono a introdursi nel delicato rapporto tra Comuni e cittadini frodando (agli uni e agli altri) tributi per milioni di euro. Dentro lo scandalo c’è tutto: l’inefficienza di un’amministrazione pubblica costretta ad appaltare a veri e propri gabelloti (istituzione neo-medioevale) la riscossione delle tasse. La catastrofe ormai ventennale di privatizzazioni che, con il pretesto mendace di affidare al mercato una gestione virtuosa dei servizi, li regalano a potentati e lobbies di ogni risma, che in quasi totale assenza di controlli fanno i propri porci interessi in barba a quelli della collettività. L’intrinseco, peloso, funesto “comune sentire” tra cittadini ladri e politici ladri, gli uni mandanti degli altri e viceversa, è la sola vera questione morale. Ed è trasversale alla “casta” così come alla “società”. Contrapporle è un equivoco mortale: è dentro entrambe che gli onesti devono unirsi per fare la rivoluzione contro i ladri.
LA REPUBBLICA del 7 dicembre 2012
Il coretto delle miss, ancora invaghite del loro vecchio impresario; il “boia chi molla” di qualche scudiero dismesso che sogna di essere richiamato alle armi; qualche applauso sul web, dove per la legge dei grandi numeri un “evviva! ” tocca anche all’ultimo dei mediocri; l’appoggio (per contratto) dell’unico giornale di destra che gli è rimasto ciecamente fedele per la sola, umiliante ragione che è suo. Per il resto, l’autocandidatura di Berlusconi, stridula e anacronistica, cade sul centrodestra italiano come un macigno. È la mano del morto che afferra i vivi, e a parte i prezzolati, gli incauti, i fanatici del personaggio, non c’è italiano di destra che non veda l’accanimento ottuso con il quale l’ex capo, ex fondatore, ex premier, ex tutto sta sfasciando la loro casa comune. A sinistra si dovrebbe gongolare, tanto evidente è il vantaggio che avrebbe Bersani se dovesse affrontare una mummia politica di tale fatta. Invece viene malinconia per l’immeritato, ultimo sbrego che questo pessimo leader, e pessimo italiano, ha voluto infliggere agli amici, agli avversari, a un paese intero e al suo già esile tentativo di meritarsi un futuro.
LA REPUBBLICA del 3 gennaio 2013
La quasi totale rimozione della questione sociale è stato il tratto politico più forte, e più sconvolgente, degli ultimi anni. Soprattutto in Italia, dove questa rimozione ha indossato la maschera tragicomica del berlusconismo, poveri o semipoveri che venerano il più ricco, come se le sue promesse bugiarde fossero l’oppio indispensabile per dimenticare per sempre di essere svantaggiati, subalterni, umiliati. Anche alla luce di questo lungo inganno, mi ha fortemente colpito l’articolo di Gad Lerner ( Repubblicadi ieri) sulla povertà, meglio sull’impoverimento che oramai lambisce anche le porte di chi ci è parente o amico. Sostenere – come fa Lerner – che il compito prioritario della politica è combattere la povertà non solo non è una banalità; è, nei fatti, una rarità (giornalistica così come politica). Ma nello sgretolarsi del welfare, nella contrazione paurosa del lavoro, quale altro obiettivo può essere più importante, e al tempo stesso più innovativo, dell’organizzazione di un argine sociale alla miseria e alla solitudine? “Una nuova società più conviviale nella quale ritrovare il modo di aiutarci”, scrive Lerner. Mi sembra, con buona approssimazione, l’eccellente sintesi del programma elettorale di qualunque sinistra.